Un governo anomalo
Anziché sviluppare una dialettica con le opposizioni, Lega e M5s litigano per la conquista di nuovi elettorati. Parla Sabino Cassese
Professor Sabino Cassese, lei ha spesso citato un libro di uno studioso americano, T.J. Pempel, sulle “Uncommon Democracies”. Quali caratteri anomali presenta l’attuale democrazia italiana? Che cosa hanno di inconsueto le attuali forze politiche? Quali stranezze presenta l’attuale situazione e che colpisce degli attuali indirizzi di governo?
Si prepari a un lungo elenco di indizi, il primo dei quali riguarda la ricerca di legami tra i sovranisti, a livello sovranazionale: Salvini che stabilisce legami con i suoi simili polacchi, ungheresi e francesi. Ecco un bell’ossimoro: l’alleanza sovranazionale dei sovranisti. Si potrebbe chiedere maggiore coerenza?
E sul piano interno?
Non credo che si siano mai viste due forze politiche che conquistano il governo mettendo in minoranza altre due forze politiche e che, invece di dar luogo a una dialettica maggioranza-opposizioni, cominciano a litigare tra di loro, all’interno del governo, in continua competizione per conquistare nuovi elettorati. In Parlamento vi sono rappresentanti delle opposizioni che fanno sentire la propria voce, ma con scarso frutto, perché una opposizione deve poter prospettare una alternativa, mentre Forza Italia attende solo la rottura della coalizione per conquistare qualche seggio nel governo e il Partito democratico non riesce a formulare una proposta, a causa di divisioni, ma anche di mancanza di cervello politico. Intanto, le due forze di governo giocano al continuo rilancio, a chi la spara più grossa, per avere più ascolto. Ritornano d’attualità le parole di Leopoldo Elia nella sua ultima intervista: “Il leader del partito deve essere controllato dal partito”.
Non la colpiscono la circostanza che due forze tanto diverse siano unite dal populismo, e il fatto che forze populiste siano al governo, fatto raro, forse unico?
Qui sta un’altra anomalia, ma non è quella che lei indica. L’anomalia sta nel fatto che si tratta di populismo a giorni alterni, o di facciata. Casaleggio ha dichiarato al Corriere della Sera sul finire del 2018 che “possiamo organizzare un grande progetto di democrazia partecipativa”. I propositi sono simili a quelli enunciati dai bolscevichi. Come i bolscevichi, i 5 stelle li hanno subito dimenticati. Qualcuno degli indirizzi, qualcuno dei disegni di legge, qualcuno dei decreti è stato sottoposto a consultazione popolare? Legga i più di mille commi della legge di Bilancio e avrà un bel quadro dell’Italia corporativa, non dell’Italia populista. Per questo dico da tempo che si tratta di corporativismo condito da verniciature populiste. Consideri le 16 mila assunzioni previste nel pubblico impiego, che diventano 33 mila, di cui 11 mila per la pulizia nelle scuole, più di 6 mila nelle forze dell’ordine, 3 mila per la giustizia, oltre al cosiddetto “turn over”, cioè i rimpiazzi delle uscite per cessazione del rapporto di lavoro. Tutti posti di livello basso e medio, l’elettorato potenziale delle due forze di governo. Se i media avessero ancora capacità di vedere, di studiare, di analizzare, è lì che punterebbero l’attenzione. Aggiunga il rapporto singolare delle due forze di governo con i mezzi di formazione dell’opinione pubblica. Si sono impossessate della Rai. Ognuna ha una specie di bollettino parrocchiale. Ma sui grandi giornali non confermano, non discutono, non smentiscono (una eccezione è il ministro Fraccaro).
Finora ha parlato delle anomalie delle forze di governo nei loro rapporti e nelle relazioni con l’opinione pubblica. E la macchina dello stato?
Mancato rispetto delle regole e primitivismo istituzionale, a partire dal governo. Dove mai si è visto un governo con tre primi ministri? E che ne dice di un governo che trae ispirazione da due persone che ne sono fuori, come Grillo e Casaleggio? E il contratto per il governo del cambiamento non doveva essere nello stesso tempo la guida e il giornale di bordo del governo, mentre sembra dimenticato? Quanto all’attività legislativa, come al solito è per quattro quinti di iniziativa governativa e consiste nella conversione in legge di decreti legge. Considerato che il Consiglio dei ministri, a sua volta, non è luogo di discussione, ma sede di ratifica di accordi tra le due forze politiche, si può dire che la legislazione è fatta a quattro mani, non di più. Quanto al contenuto dei provvedimenti normativi, c’è di peggio. Tutta la politica del governo ruota intorno al reddito di cittadinanza (una misura – si può ritenere – non diversa dalla indennità di disoccupazione involontaria), ma solo da qualche giorno gira un testo distribuito tra i ministeri, dal quale si può apprendere che non è un “entitlement”, ma un diritto finanziariamente condizionato (cioè, quando finiscono i soldi, il diritto evapora).
Ma ora c’è la proposta di legge costituzionale sul referendum, che mercoledì passa all’esame dell’Aula.
Noto, intanto, che sulla carta si svuota il Parlamento mentre si riempie il popolo di diritti. La discussione non ha affrontato alcuni problemi di fondo. Con queste norme la nostra democrazia sarà più democratica? Come si può evitare che i referendum rappresentino una ulteriore spinta all’esondazione del legislatore, visto che ormai si amministra legiferando? Non sarebbe più opportuno assicurare maggiore partecipazione “a valle”, come si fa in tutti gli altri paesi? Il problema non è quello di fare leggi più popolari, ma quello di fare meno leggi? Quale forza avrà, con il referendum propositivo, una legge approvata dal popolo? Sarà possibile modificarla o finirà per ingessare il paese? Con queste domande voglio dire che non contano soltanto i numeri (“quorum” di ammissibilità e “quorum” approvativo) e le materie escluse, ma anche gli effetti di sistema.
Un altro capitolo importante, che diventerà “caldo” nei primi due mesi dell’anno, è quello delle autonomie differenziate.
Anche qui sembrano scivolare nel dimenticatoio i problemi di fondo: che succede se tutte le regioni si differenziano (pare che solo due vogliano restare con le attuali competenze)? Si possono tutte differenziare in modi diversi, o deve esserci una impostazione comune della differenziazione, almeno in partenza? In base a quali criteri lo stato deve accettare la differenziazione, solo su domanda, oppure in relazione alla qualità della pregressa gestione, e in tal caso questa come si misura? Quale differenza vi dovrà essere tra autonomie differenziate e autonomie speciali (le cinque regioni con speciale statuto esistenti)? Come vede, anche in questo si manifestano debolezza e anomalie di un governo che non studia.