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Il dialogo necessario

La Cina è cambiata, e il nostro legame storicamente è forte. Proviamo a portarla dalla nostra parte

Professor Cassese, dobbiamo preoccuparci di una prossima invasione cinese?

La discussione in corso è la classica tempesta in un bicchier d’acqua. Guardiamo i fatti. E’ prossima la firma di un Memorandum of Understanding (MoU), cioè di un protocollo di intesa, tra Repubblica popolare cinese e Repubblica italiana. Il protocollo ha durata quinquennale. Non è un trattato internazionale. Impegna a cooperare e indica espressamente i vincoli del contraente Italia, quelli che discendono dall’Organizzazione mondiale del commercio e dall’appartenenza all’Unione europea. Traccia un percorso, prevede che le parti raggiungano specifici accordi. Tutto questo è davvero un’operazione diabolica?

 

Ma l’Unione europea ha messo gli Stati membri sull’avviso.

Si riferisce al Comunicato congiunto di Commissione e vicepresidente/Alta rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione (12 marzo 2019). Il Comunicato, un atto non vincolante, che ribadisce punti che fanno parte del diritto europeo, elenca gli obiettivi noti: multilateralismo, rispetto dei diritti umani, sviluppo sostenibile, protezione dell’ambiente e del clima, pace, rispetto delle regole del commercio mondiale, tutela della concorrenza nell’aggiudicazione dei contratti pubblici, divieto di aiuti di Stato. Si tratta di regole che lo Stato italiano deve comunque rispettare. Alcune di esse vincolano anche la Repubblica popolare cinese. Le chiedo: queste avvertenze sono buone ragioni per non cooperare con la Cina? Ci sono ragioni particolari per cui l’Italia dovrebbe astenersi dal firmare un protocollo di intesa, quando altri 13 Stati membri dell’Unione europea hanno già da tempo avviato rapporti molto stretti con la Cina (le esportazioni della Germania in Cina hanno un valore quasi dieci volte più alto di quelle attuali italiane)?

 

Ma vi sono preoccupazioni che vanno al di là di queste, di più lungo periodo, come quella di uscire dal quadro di alleanze attuali, che ci vede parti di quello che chiamiamo l’Occidente e quella di cooperare con un paese autoritario e statalista, quindi pericoloso sia per i diritti sia per l’economia.

Conosco l’osservazione. La Cina fa “dumping”, si vale di condizioni di lavoro meno rispettose dei diritti umani, sfrutta un regime centralistico e autoritario. Questo è vero. Ma sull’altro piatto della bilancia c’è la possibilità, per gli Stati contraenti – ad esempio, l’Italia – di stabilire condizioni di rispetto di diritti sociali negli accordi che dovranno esser stipulati. Sono quelli che si chiamano “linkages”, legami: collegare il progresso dei commerci, la libertà di investimento, la cooperazione, al rispetto di alcuni fondamentali diritti da parte del “partner”. Posso ricordarle, inoltre, che già Immanuel Kant, nel suo famoso scritto sulla pace perpetua vedeva nello sviluppo della cooperazione commerciale un mezzo per assicurare uno sviluppo pacifico del mondo: due paesi che commerciano hanno interesse a mantenere la pace tra di loro.

 

Ma la Cina sta diventando una potenza mondiale, e l’Italia sarà sempre in difficoltà con un colosso di un miliardo e quattro milioni di abitanti.

Così cambiano piano del discorso. Il quadro mondiale è in mutamento. Si registra un progressivo declino degli Stati Uniti quali “regolatori del traffico” nel mondo. Per non dire del Regno Unito, che da potenza mondiale si sta riducendo alla povertà della Brexit, con un danno materiale e reputazionale incalcolabile. Già qualche anno fa Kissinger aveva intravisto un nuovo modo di organizzarsi del mondo per grandi zone geografiche. Qui sta la forza dell’Unione europea, l’unica entità che può tener testa alle altre grandi entità politiche di dimensione nazionale o sovranazionale. E quindi ha fatto bene la Commissione a ricordare la necessità del rispetto delle regole comuni ai diversi Stati membri. A questo si aggiunge qualcosa che è peculiare ai rapporti tra Italia e Cina.

 

Che cosa abbiamo in comune?

Un passato lontano, che è ben presente ai cinesi che fanno piani a lungo termine e sono capaci di guardare la “lunga durata”. Consideri due fatti. Quell’ordine giuridico che chiamiamo Cina è il potere pubblico con più lunga durata nel mondo: sta lì dalla fondazione dell’impero, nel Terzo secolo avanti Cristo. Immagini – per fare un paragone – Roma oggi ancora padrona del Mediterraneo, dei Britanni fino al Vallo di Adriano, dei Galli e dei Germani. Noi abbiamo dimenticato questo passato, che invece i cinesi conoscono, perché il loro passato è ancora presente. Questo spiega lo straordinario interesse politico e culturale cinese per l’Italia, il fatto che in Cina si studi il Diritto romano, la loro attenzione per i resti del nostro passato.

 

Ma questo è un rapporto a un solo senso, e per di più tra epoche tanto lontane, da Roma antica alla Cina di oggi.

C’è dell’altro: l’influenza esercitata dalla Cina in Europa nel campo filosofico e politico. Mi lasci citare un nostro grande sinologo, Giuliano Bertuccioli, che ha insegnato per un quindicennio alla Sapienza romana, dopo essere stato come diplomatico a Nanchino, Tokyo, Seul, Hanoi e Manila, noto per i suoi studi sul taoismo e sulle missioni dei gesuiti in Cina nel XVII e nel XVIII secolo. In un suo saggio del 1986 (“Come l’Europa vide la Cina nel secolo XVIII”, su “Mondo cinese”, n. 54, p. 21 e seguenti), spiega che nel Settecento la Cina e la sua civiltà divennero un “modello” per l’intera Europa. Questo accadde quando Voltaire e gli illuministi preparavano con i loro scritti il terreno della rivoluzione. Secondo Bertuccioli, l’idea di reclutare gli amministratori dello Stato mediante esami di concorso, estranea al mondo greco-romano, l’idea poi entrata nelle costituzioni rivoluzionarie francesi (e da lì in molte costituzioni contemporanee) della “carriera aperta ai talenti” ci fu data dai cinesi. Persone come Quesnay, come Leibniz, come Voltaire, furono colpiti dall’idea dell’esame scritto e orale per scegliere i migliori per ricoprire determinate cariche pubbliche.

 

Ma sono storie lontane nel tempo.

Allora le ricordo lo straordinario cambiamento realizzato dalla Cina negli ultimi decenni: provi a comparare la Cina e le sue città di oggi con quella di soli venti-trent’anni fa. Quale altro paese al mondo ha realizzato un tale sviluppo rapido, senza rompere la continuità delle istituzioni? Le ripeto: la Cina è il più antico Stato che stia sulla terra in modo continuo – pur essendo cambiato al suo interno più di una volta – dal Terzo secolo avanti Cristo.

 

Torniamo a oggi: che ne pensa della reazione di uno dei vice all’altro vicepresidente del Consiglio dei ministri?

Si riferisce alla dichiarazione del ministro dello Sviluppo, che avrebbe dichiarato il 16 marzo scorso: “Ho apprezzato a suo tempo Trump quando ha detto America First. Adesso io dico Italia First”? Questo per sostenere che è nell’interesse italiano avere investimenti cinesi nella Penisola. Ritengo l’affermazione un’ulteriore testimonianza di questi anni di sbandamento, segno di contraddizione e scarsa chiarezza concettuale.

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