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Le frontiere sono chiuse solo per la parte più povera della popolazione

Le barriere sono il frutto dei nazionalismo del Novecento. Non si vede perché debbano essere ancora un limite e non un ponte. Parla Sabino Cassese

Professor Cassese, Salvini ha dichiarato (31 marzo 2018): “I nostri confini ce li controlleremo noi”; un anno dopo (marzo 2019): “Per questo gli italiani mi pagano lo stipendio: per difendere i confini e la sicurezza del mio paese”; infine, il 15 aprile 2019 “per il bene degli italiani, con me i porti sono e rimangono chiusi”.

Cominciamo dall’analisi lessicale: noti che ricorre sempre il richiamo agli italiani, identitario. Il ministro dell’Interno si sente investito dei suoi poteri da tutta la collettività, parla a nome dell’intero popolo. Poi, osservi la coerenza, a distanza di un anno. Ma la coerenza nell’affermare non vuol dire necessariamente che i fatti seguano le dichiarazioni.

 

Che vuol dire?

Oltre a una decina di porti maggiori e a una trentina di porti minori, per non contare i porti turistici, l’Italia ha circa ottomila chilometri di coste e una lunga frontiere terrestre. Sono tutti confini presidiati notte e giorno? Come mai le statistiche ufficiali segnalano che il numero di immigrati è in aumento?

 

Ma i “sacri confini della Patria” non vanno salvaguardati, protetti?

Questo fa parte delle mitologie. Cominciamo col dire che oggi molti stati esternalizzano i confini. Il Canada fa controlli sulle persone, grazie ad accordi con altri stati, direttamente negli aeroporti da cui partono gli aerei diretti al Canada. L’Italia ha chiesto a paesi terzi, come Tunisia, Niger, Turchia e Libia, di fare altrettanto, ad esempio fermando e controllando i richiedenti asilo. Ci sono paesi che, per altri motivi, arretrano le frontiere. Australia e specialmente stati Uniti considerano prese sulla frontiera persone che sono anche 100 miglia nel territorio nazionale per evitare, con una finzione legale, di riconoscere loro i diritti che sono garantiti dall’ordine giuridico nazionale. Siamo alle frontiere mobili, che avanzano e arretrano, a seconda delle esigenze.

 

Ma le frontiere, i confini, non sono stati sempre i limiti territoriali del potere e quindi segnati e salvaguardati?

Non è così. I limiti dell’Impero romano erano segnati da zone di frontiera, non da veri e propri confini. Più tardi, in epoca non molto lontana da noi, i confini erano ben poco rilevanti. Senta che scriveva nel 1919 John Maynard Keynes nel volume “Le conseguenze economiche della pace” (Adelphi, 2007), riferendosi agli anni prima della Prima guerra mondiale: “L’abitante di Londra poteva ordinare per telefono, sorseggiando in letto il tè mattutino, i vari prodotti di tutto il globo terracqueo, nella quantità che riteneva opportuna, e contare ragionevolmente sul loro sollecito recapito a casa sua; poteva nello stesso momento e con lo stesso mezzo avventurare la sua ricchezza sulle risorse naturali e nelle nuove imprese in qualsiasi parte del mondo, e partecipare senza sforzo né incomodo ai loro sperati frutti e vantaggi; o poteva decidere di agganciare la sicurezza delle sue fortune alla buona fede dei cittadini di qualsiasi ragguardevole comunità municipale di qualsiasi continente suggerita dal capriccio o dall’informazione. Poteva procurarsi immediatamente, se lo desiderava, mezzi di trasporto comodi e poco costosi, per qualsiasi paese o clima, senza passaporto od altre formalità; poteva mandare il suo domestico al più vicino ufficio bancario a fare la provvista di metalli preziosi che gli paresse conveniente, e recarsi quindi in paesi stranieri senza conoscerne religione, lingua e costumi, portando su di sé denaro liquido, e avrebbe considerato il minimo impedimento una grave e stupefacente lesione dei suoi diritti. Ma soprattutto egli riteneva questo stato di cose normale, certo ed immutabile…”. Più tardi, Stefan Zweig, “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo” (Mondadori, 2016, p. 349): “Prima del 1914 la terra apparteneva a tutti: ognuno andava dove voleva e vi rimaneva finché voleva. Non c’erano permessi né concessioni né lasciapassare. Mi diverte sempre lo stupore dei giovani quando racconto loro di essere stato prima del 1914 a girare l’India e l’America senza possedere un passaporto o neppure averlo mai visto. Si saliva e si scendeva da un treno o una nave senza interrogare e senza venire interrogati, non c’erano da riempire uno solo dei cento formulari oggi richiesti. Si ignoravano i visti, i permits e tutte le seccature; gli stessi confini che oggi, per la patologica diffidenza di tutti contro tutti, sono trasformati in reticolati da doganieri, poliziotti e gendarmi, non significavano altro che linee simboliche, che si potevano passare con la stessa spensieratezza come il meridiano di Greenwich”.

 

Ma oggi?

Già nel 1994 sir Robert Jennings, presidente della Corte internazionale di giustizia, osservava che il concetto di sovranità territoriale è limitato dal diritto e aggiungeva che bastava andare all’aeroporto di Amsterdam per notare quante persone aspettavano di andare in parti diverse del mondo senza un particolare permesso e senza dovere riempire moduli, qualcosa che si era andata sviluppando – aggiungeva – durante cinque o sei decadi (si veda Antonio Cassese, “Five Masters of International Law”, Oxford, Hart, 2011 p. 168). Oggi, secondo l’International Airline Transport Association (Iata) circa un quinto della popolazione mondiale attraversa le frontiere in aereo (a questi vanno aggiunti quelli che attraversano le frontiere con altri mezzi). Si aggiunga che spesso le frontiere sono un problema.

 

In che senso le frontiere possono costituire un problema?

Uno degli inciampi maggiori per la realizzazione della cosiddetta Brexit è prodotta dalla necessità di una frontiera là dove non ce ne dovrebbe essere. Se il Regno Unito esce dall’Unione europea, si deve mettere una frontiera tra Repubblica d’Irlanda (che rimane nell’Unione) e Ulster o Irlanda del nord (una zona che rimane nel Regno Unito). Ma lo stabilimento di un confine e i relativi controlli sono impediti dagli accordi raggiunti a suo tempo per far cessare i conflitti locali.

 

Quali sono le sue conclusioni?

Che le frontiere stanno perdendo importanza, perché il legame tra uomini e territorio si affievolisce. Che se le frontiere sono aperte alla finanza, ai mercati, ad alcune persone (gli scienziati, gli specialisti, e molte altre categorie che nessun paese respinge: ad esempio, gli infermieri in Italia), non si vede perché non debbano essere aperte anche ai comuni mortali. Che le frontiere non sono chiuse; o lo sono solo per la parte più povera e più debole della popolazione mondiale. Che le barriere tra popoli sono il frutto dei nazionalismi del ’900 e non si vede perché debbano essere ancora un limite e non un ponte.

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