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Prima i diritti. E i doveri non si traducono in responsabilità

Ricordarsi del dare e avere reciproco tra società e individuo, specialmente quando si parla di quota 100 e di pensioni

Professor Cassese, “compagni rifiutiamo il lavoro. Vogliamo tutto il potere, vogliamo tutta la ricchezza” scriveva, dopo il 1968, lo scrittore della neoavanguardia Nanni Balestrini in un libro intitolato Vogliamo tutto (Milano, Feltrinelli, 1971). Questo titolo ha ispirato una mostra, nel 2018, al Meeting dell’amicizia di Comunione e liberazione, a Rimini, che ha a sua volta dato luogo a un catalogo curato da vari autori, con lo stesso titolo (Vogliamo tutto. 1968-2018, Castel Bolognese, Itaca, 2018).

Quell’affermazione simboleggia la sagra dei diritti, l’enfasi posta da tanti sui soli diritti, dimenticando i doveri, di cui si parla poco. L’ha osservato anche Alessandro Barbano nel suo libro Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertàNella realtà, diritti e doveri sono spesso inestricabili. Ad esempio, se c’è un diritto alla salute, c’è anche un dovere di sottostare a limiti nell’interesse della collettività, come nel caso delle vaccinazioni obbligatorie. I contrari alle vaccinazioni vogliono i diritti, rifiutano i doveri.

 

Gustavo Zagrebelsky, in Diritto allo specchio (Torino, Einaudi, 2018, p. 110) ricorda che negli ultimi anni della sua vita, Norberto Bobbio “soleva interrompere con una certa rudezza chi fosse venuto a parlare del suo celebre ‘L’età dei diritti’” – “Se avessi ancora il tempo e le energie, scriverei piuttosto ‘L’età dei doveri’” – e osserva che “il costituzionalismo dei diritti […] deve scoprire i doveri”.

Si sono anteposti i diritti ai doveri, i diritti sono stati concepiti come illimitati, si sono spesso dimenticati i doveri, solo in pochi casi i doveri sono divenuti responsabilità. Ricordo quel che ha scritto il pensatore spagnolo Ortega y Gasset ne La ribellione delle masse, un libro del 1929 (trad. it., Milano, SE, 2001, p. 161): “Una vita senza doveri è più negativa della morte. Perché vivere vuol dire avere compiti precisi da svolgere – un incarico da espletare – e nella misura in cui eludiamo la necessità di sottomettere a una compito la nostra esistenza, la vanifichiamo”.

 

La Costituzione ha riservato un posto ai doveri?

Ne elenca molti, verso la Repubblica (ad esempio, di esserle fedeli: art. 54), verso la società (ad esempio, il dovere di solidarietà e quello di concorrere al progresso sociale: articoli 2 e 4), verso lo Stato (ad esempio, l’esercizio del voto, la difesa della Patria, lo svolgimento con disciplina ed onore delle funzioni pubbliche: articoli 48, 52 e 54), verso la famiglia (ad esempio, mantenere, istruire ed educare i figli: art. 30). La Costituzione menziona sette volte i doveri. Questi sono consacrati al livello più alto. D’altra parte, la parola d’ordine di Nelson davanti a Trafalgar fu “l’Inghilterra si aspetta che ogni uomo faccia il suo dovere”, non che ogni uomo sia un eroe.

 

Ma sempre con i diritti.

Anche se non sono affiancati espressamente. Questo binomio diritti-doveri (nel caso dei genitori, doveri-diritti) è un lascito dell’Anno III della Rivoluzione francese, la fine del Terrore e l’inizio del Termidoro, quando i rivoluzionari, uscito di scena Robespierre, cominciarono a preoccuparsi di mantenere l’ordine. Insomma, la Costituzione non declina i diritti da soli, ma in congiunzione con i doveri. Per cui non si possono rivendicare diritti senza, nello stesso tempo, ricordarsi dei corrispondenti doveri, qualcosa che un terzo dell’elettorato, quello che si astiene, dimentica (il voto è un dovere civico).

 

E il terzo elemento della triade da lei evocata, la responsabilità?

Il lemma ricorre nove volte nella Costituzione, ma questo è un caso di polisemia, perché è usato in accezioni diverse. Il direttore responsabile della stampa (articolo 21) è l’indicazione di un centro di imputazione. Il presidente del Consiglio dei ministri responsabile della politica generale del governo (articolo 95) indica sia un compito che una responsabilità in senso tecnico. In senso proprio la responsabilità è quella dei ministri per gli atti dei loro dicasteri (articolo 89) e dei funzionari e dipendenti dello Stato per gli atti compiuti (articolo 28). La lingua inglese, che è più ricca di lemmi, distingue “accountability” (accollo della responsabilità per un compito svolto), “responsibility” (responsabilità anche prima dello svolgimento di un compito) e “liability” (che è l’italiana responsabilità civile).

 

Ma come si attiva la responsabilità?

Questo è il problema principale nel diritto pubblico. Se, infatti, con la responsabilità si fanno gravare su di un soggetto obblighi specifici e alla violazione di essi si ricollega il sorgere della responsabilità, il problema è come far diventare l’accollo dei doveri anche una responsabilità, come collegare al mancato adempimento una conseguenza che agisca come una sanzione in senso lato. Il diritto pubblico, in questo è molto meno stringente di quello privato.

 

Torniamo al legame tra doveri e diritti: come si articola?

Il modo migliore è di vederlo in concreto. Leggiamo tutto l’articolo 4 della Costituzione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Di questo articolo noi ricordiamo sempre la prima parte, non la seconda. Ricordiamo i diritti, non i doveri. Ora, la prima parte è diretta alla Repubblica (una parola che, in questo contesto, indica tutto l’ordinamento, parte pubblica e parte privata) a favore dei cittadini (ma la Corte costituzionale ha lentamente allargato il significato di questa parola, usata in diverse norme costituzionali, per includervi tutte le persone). La seconda è diretta ai cittadini (nel senso ampio che ho detto), a favore della società (che qui è simmetrica a Repubblica). C’è un dare e un avere reciproco, tra società e individuo: la prima deve assicurare le condizioni per lavorare, il secondo deve lavorare per concorrere al progresso della società. Se ce ne ricordassimo un po’ più spesso, specialmente quando si parla di quota 100 e di pensioni, vi sarebbe più “progresso materiale o spirituale della società”.

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