Il respiro corto dei partiti e delle burocrazie e il silenzio dell'establishment
Il vuoto programmatico dei partiti e la volatilità dell’elettorato. La lezione delle regionali in Umbria
Qual è la lezione delle elezioni nella regione Umbria di questo ottobre 2019?
Un giudizio negativo sulla gestione del Pd. Un’affermazione della democrazia dell’alternanza (non dimentichiamo che l’alternanza delle forze politiche al potere è considerata uno degli elementi costitutivi della democrazia e che il Pd era al governo da mezzo secolo, da quando esistono le regioni italiane). Un giudizio negativo dell’elettorato sull’improvvisazione degli uomini di partito (due schieramenti che si erano contrapposti fino a pochi mesi prima si sono improvvisamente scoperti alleati). Un giudizio negativo sul vuoto della politica. Per queste ragioni è cresciuta la partecipazione elettorale di dieci punti rispetto alle precedenti elezioni regionali e i voti sono andati alla coalizione di destra, che ha vinto sia a confronto delle precedenti votazioni locali, sia a confronto delle elezioni europee.
Le conseguenze per la politica nazionale?
Meglio non correre. Vi sono ancora alcuni tratti caratteristici di questa elezione, la prima dopo l’ennesima svolta a livello nazionale. La circostanza che, al fondo, i candidati locali non hanno contato, che l’offerta politica al livello regionale sia stata poco rilevante per la scelta degli elettori, mentre ha giocato la rottura del meccanismo prestazioni sociali contro consenso politico, di cui era stata prova l’inchiesta che aveva provocato la caduta della giunta precedente.
Torniamo alle conseguenze per la politica nazionale.
Non sono dirette. Se abbiamo più democrazie, locale, regionale, nazionale, europea, è perché le scelte dell’elettorato possono essere diverse ai vari livelli. Questo il motivo per cui parliamo di autonomia politica delle regioni. Insomma, se da elezioni locali traiamo una immediata conseguenza per la politica nazionale, diventiamo implicitamente centralisti. I due piani vanno tenuti separati. Questo non vuol dire che il governo del centrodestra in 12 delle 20 regioni italiane non abbia una valenza politica generale, nazionale. Potrebbe avere ripercussioni sul governo nazionale, come sintomo di un divario paese-governo, specialmente a mano a mano che ci si allontana dalle elezioni politiche nazionali del 2018. In altre parole, con il passare del tempo, le elezioni regionali, pur essendo funzionali alla sola democrazia regionale, sono un indicatore di un crescente distacco del paese dalla maggioranza al governo nazionale.
E questo dovrebbe essere una lezione per i partiti, per le istituzioni e per la società.
Comincio dai partiti. Questi hanno il respiro corto. I loro leader sono uomini di propaganda, non di politica. Sono più preoccupati dei problemi interni al corpo politico che ai problemi della società. Renzi ha dichiarato il 6 ottobre 2019 al Corriere della Sera: “La politica costringe a parlare di idee e di programmi. Molti mi attaccano sul carattere, pochi mi rispondono sui contenuti”. Nulla di più falso. Ha creato un partito senza una idea di programma, rinviando alla Leopolda. E da lì è venuto un programma, una indicazione per il futuro dell’Italia? La sua Italia viva sembra esser viva solo sul tema delle tasse. Lui, come gli altri, fa solo guerra di movimento, ma finisce per esser il classico cannone libero sulla tolda. Dall’altra parte, Salvini ha dichiarato al Corriere della Sera il 1° ottobre 2019 che “il leader è quello che ha i numeri”. Io pensavo che il leader fosse quello che ha idee. Invece, per Salvini “da una parte c’è chi dipende dai numeri di Parigi, Berlino e Bruxelles. Dall’altra noi. Quello dice di ispirarsi a Macron, io mi ispiro agli italiani”. Questa rozza ed elementare divisione risponde davvero agli orientamenti del paese, ne interpreta sentimenti, speranze, aspirazioni, nonché divisioni? Insomma, ha ragione Roberto D’Alimonte quando osserva, relativamente ai dirigenti del Pd, che “sui temi decisivi non si capisce cosa vogliono fare” (Italia Oggi, 31 ottobre 2019). I partiti dovrebbero capire che “il cosa fare conta molto di più del con chi stare”, come ha osservato icasticamente Claudio Cerasa (il Foglio, 31 ottobre 2019).
Vuol dire che c’è più distacco tra partiti e paese di quello tra Stato e paese?
Voglio dire che quelli che continuiamo a chiamare partiti (ma loro stessi rifiutano questo nome) sono lontani dal lento fluire della vita quotidiana del paese, registrano l’episodico, oppure creano essi stessi miti, che poi coltivano. Il breve periodo prevale sul lungo periodo. Le cose urgenti prendono la mano a quelle importanti. Invertono fini e mezzi. Questo è dimostrato dall’accanimento unanime di tutti i partiti sul tema delle tasse. Nessuno pensa a che cosa esse servano. Nessuno riflette sul fatto che esse sono un mezzo, non un fine. E questo spiega il successo che hanno i manichei apocalittici, come Greta, con la sua contrapposizione tra “noi” e “voi”, con l’evocazione di una “estinzione di massa” e il rivivere di un radicalismo mistico che è tanto lontano dalla vita quotidiana di una nazione.
Passiamo ora alle istituzioni.
Lamentiamo ogni giorno che l’Italia è ingessata. Accusiamo la burocrazia. L’Unione europea ci chiede la modernizzazione dello Stato. Ma l’ottovolante della politica non si dedica a questi temi, anzi contribuisce allo sfarinamento delle istituzioni. La funzione legislativa è sempre più nelle mani del governo. Il sistema giudiziario (procure e giudici) stringe da vicino la pubblica amministrazione, sia con i suoi tempi lunghi, sia mettendo sotto accusa amministratori, con esiti negativi o comunque con altri tempi lunghi. Ma la società dipende dall’amministrazione e quest’ultima è stretta tra legislatore e giudice, e non si muove.
Ma la classe politica non è aliena dal compiacere le burocrazie.
Sì, questo è un altro dei mostruosi connubi a spese del paese e del bilancio statale. Pensi a quello che sta bollendo nella pentola della funzione pubblica. I sindacati richiedono progressioni economiche di massa, in violazione delle attuali norme, e progressioni verticali senza concorso pubblico. Le prime violano il principio meritocratico e selettivo, le seconde i princìpi costituzionali, come la Corte costituzionale ricorda con la sua giurisprudenza. Nel governo sono presenti populismo e neocorporativismo pansindacale. Il contratto collettivo nazionale per la dirigenza delle funzioni centrali, sottoscritto in via preliminare il 9 ottobre, all’articolo 30 bis stabilisce che il sindacalista in distacco percepisce non solo lo stipendio (già questa un’anomalia), ma anche una percentuale della retribuzione di risultato e della posizione variabile, che è collegata all’ufficio ricoperto e che può arrivare fino al 90 per cento sulla base della contrattazione integrativa. Tutto questo in violazione non solo della norma del 2001 che vieta alle amministrazioni pubbliche l’erogazione di “trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”, ma anche delle sentenze che hanno ribadito il nesso necessario fra retribuzione di risultato, valutazione e misurazione del risultato. Aggiunga le assunzioni senza concorso o i concorsi interni riservati a chi è già dentro, in deroga alle norme sui concorsi e sui requisiti (titoli di studio) richiesti per l’accesso dall’esterno, la nuova proroga delle graduatorie di idonei non vincitori di concorsi scaduti da quasi un decennio, il disprezzo per il principio del merito, il ritorno ai controlli preventivi della Corte dei conti, che sono una forma di cogestione.
Passiamo alla società, l’ultimo dei tre temi.
Tutti gli indicatori mostrano una società vivace, sveglia, alla ricerca del filo della propria storia, curiosa del proprio passato, interessata ai fatti e alla loro interpretazione, tre “condimenti” assenti nel mondo di quella che chiamiamo politica. Non una società apatica, ma una società interessata, che si chiede quale sia il suo futuro, e tuttavia che non riesce a trovare risposte nel vuoto programmatico della politica, alla quale fa riscontro la volatilità dell’elettorato. Gli eletti hanno quello che si meritano, perché non riescono a “legare” gli elettori a un programma, a delle idealità. In tutto questo, c’è l’assenza di quello che gli inglesi chiamano “establishment”: la classe dirigente, gli intellettuali, i capi d’azienda, i grandi gestori, guardano con stupore, ma sono silenti.