Non solo reddito e ricchezze. Come misurare le nuove diseguaglianze
Un secolo di lotte sociali per diminuirle. Ma occorre valutare gli effetti delle conquiste delle classi svantaggiate
Professor Cassese, le domande per il reddito di cittadinanza sono state per un terzo delle persone previste. I beneficiari potrebbero diminuire considerati i falsi poveri che si nascondono dietro possibili false autocertificazioni, in assenza di controlli a tappeto. Per non parlare del fatto che una gran parte delle istruttorie è stata fatta attraverso i Caf, in larga misura sindacali. I “left behind” sono meno dei circa 6 milioni di cui si è parlato? Quali conseguenze questa rivalutazione può avere sul giudizio complessivo che si dà sulle diseguaglianze in Italia?
Le diseguaglianze possono essere misurate in molti modi, o meglio vi sono diversi tipi di diseguaglianze: di reddito, di ricchezza, di ricchezza familiare, di condizioni sociali complessive, territoriali, tra generazioni, di opportunità, di lavoro, nella fruizione dei servizi essenziali. Bisogna essere molto cauti nelle conclusioni. Ad esempio, si dice spesso che le diseguaglianze nel mondo sono crescenti, mentre le diseguaglianze di reddito e livello di vita tra le popolazioni mondiali sono in diminuzione, grazie alla globalizzazione. Così anche per gli Stati Uniti, dove, invece, se si valutano non solo il reddito, ma anche l’incidenza del sistema fiscale e dei trasferimenti, dal 2000 il reddito dei più ricchi è aumentato di 15 volte, quello dei più poveri di più del doppio, secondo calcoli del “Congressional Budget Office”.
Perché tiene a fare queste distinzioni?
Non solo per una questione di chiarezza concettuale, ma anche perché da esse dipende il giudizio che daremo, poi, sugli strumenti introdotti in un secolo di tentativi, specialmente di quella che era una volta la classe operaia (e i suoi partiti), per diminuire le diseguaglianze sostanziali. Questi tentativi hanno avuto il loro acme nel 1942 con il piano Beveridge, che voleva liberare i cittadini dal bisogno, in particolare introducendo sanità, istruzione, lavoro, pensioni e protezione sociale, con prestazioni in larga parte gratuite, proprio per compensare le diseguaglianze dei punti di partenza.
Quali conseguenze ha questa impostazione sui modi di calcolo?
Quella che è necessario non solo calcolare il reddito (individuale e familiare), ma anche l’incidenza dei sistemi fiscali, che colpiscono maggiormente i più ricchi, e quella del Welfare State, che avvantaggia maggiormente i più poveri. Non si può ignorare la progressività dei tributi (in Francia il 2 per cento delle famiglie paga il 40 per cento dell’imposta sui redditi). Non si può dimenticare la funzione egualizzatrice di tutte le misure di “welfare”, molte delle quali fondate sull’Indicatore di situazione economica equivalente (Isee), tendente a favorire i più svantaggiati o addirittura a escludere i cittadini con maggiori mezzi.
Ed è per questo fine che in alcuni calcoli delle diseguaglianze si valutano i redditi al netto delle imposte (che diminuiscono i redditi dei più ricchi) e i trasferimenti (che aumentano i redditi dei più poveri).
Anche questo non basta, perché il Welfare è composto anche da altri “entitlements”, prestazioni non monetarie, da vantaggi nella provvista dell’abitazione, sanitari, nell’istruzione, e di altro tipo, che è difficile valutare e quantificare, distribuendoli “pro capite”, individuandone tutti i beneficiari.
Perché insiste su questo aspetto?
Per due motivi. Perché si corre in questo modo il pericolo di dare un giudizio negativo sul passato e perché occorre valutare anche gli effetti di quello che è stato il complesso di conquiste delle classi svantaggiate per un secolo. Si corre il rischio di “annullare” (non prendendolo in considerazione) un secolo di lotte sociali dirette proprio a diminuire le diseguaglianze, ma anche di non valutare le diseguaglianze prodotte paradossalmente dalle istituzioni introdotte per diminuire le diseguaglianze. Luca Ricolfi, scrivendo sul Messaggero del 9 febbraio 2019, ha messo in luce le diseguaglianze tra chi guadagna un modesto reddito lavorando faticosamente e chi percepisce lo stesso reddito senza lavorare. Più di un osservatore ha notato che il reddito di cittadinanza potrebbe indurre molti a non lavorare o a cessare di lavorare. John Early, in uno scritto dal titolo “Reassessing the Facts about Inequality, Poverty, and Redistribution”, una delle “Policy Analysis” del Cato Institute (24 aprile 2018, n. 839) ha accuratamente messo in luce lo stesso problema negli Stati Uniti, un paese, tra l’altro, nel quale il Welfare State è tanto poco sviluppato, rispetto agli standard europei. Lì i percettori di redditi bassi e medi si sono sentiti danneggiati ingiustamente vedendo il crescente numero di beneficiari di trasferimenti (anche non monetari) pubblici. Se uno che lavora duramente vede che chi non lavora sta più o meno al suo stesso livello, si produce un altro fattore di tensione sociale.
Insomma, la dinamica delle diseguaglianze-eguaglianze è complessa, e andrebbe valutata attentamente per non provocare altri squilibri.
Richiamo alla sua attenzione la frase di Marine Le Pen (Corriere della Sera, 19 novembre 2018): “Io difendo il popolo centrale, quelli che non sono abbastanza ricchi e quindi non arrivano alla fine del mese, ma non sono neanche abbastanza poveri e quindi non godono degli aiuti sociali”. Ecco un altro problema per i governanti contemporanei.