L'Ue ci ha aiutato a liberalizzare. E per le concessioni è nuova vita
Quando lo Stato ricorre ai privati per svolgere attività di interesse collettivo. Un sistema sotto accusa. Parla Sabino Cassese
Le concessioni sono il male da estirpare? Nel rapporto tra Stato e concessionario si nasconde un pericolo di commistioni di interessi?
Siamo di nuovo alle mitologie. Politici e amministratori pubblici dovrebbero guardarsi dalle facili generalizzazioni, conoscere storia e realtà, o almeno informarsi. Le concessioni sono state tradizionalmente modi di svolgimento di funzioni collettive in forme private. Interessi pubblici e interessi privati confluiscono nelle concessioni. Lo Stato si vale di privati per svolgere attività di interesse collettivo. Con le concessioni lo Stato si organizza diversamente, ricorrendo a privati. Quindi, è sbagliato lamentare che privati traggano profitto da una attività svolta in concessione. Di questa, in un giusto equilibrio, si debbono avvantaggiare tanto privati imprenditori, quanto la collettività, tanto il concessionario del lido del mare, quanto chi vuole un ombrellone e una doccia per fare i bagni; tanto il gestore della biglietteria o del “bookshop” di un museo, quanto i visitatori dei musei. Insomma, lo Stato non fa, ma fa fare.
Ma non si può ignorare che l’area delle attività in concessione si è ridotta.
Sì, certo, con un arretramento dello Stato. Per esempio, nel campo delle comunicazioni. In altre parole, lo Stato ha rinunciato alla “riserva originaria” (così la chiama la Costituzione) di molti campi, per consentire a privati imprenditori di svolgerla liberamente (ma sottoponendoli contemporaneamente a regolazione pubblica). Merito dell’Unione europea, che ci ha aiutati a liberare lo Stato di compiti che i privati possono svolgere meglio, in modo che lo Stato possa svolgerne altri. Le liberalizzazioni fanno parte di quel continuo processo di aggiustamento, che è in corso da almeno due secoli, tra Stato ed economia, tra ciò che si fa dentro lo Stato o con il consenso dello Stato, e ciò che si lascia fare ad altri.
Dov’è la linea di confine?
Ricorda Joseph Conrad, La linea d’ombra? Ebbene, non c’è una linea, ma un continuo trapasso. Non ci sono attività che una volta per tutte possano definirsi pubbliche. Le ferrovie erano in concessione a privati e nel 1905 furono riscattate e gestite da una azienda di Stato (ora società per azioni, con partecipazione statale). Ma ancora oggi vi sono ferrovie in concessione. Lo Stato aveva una presenza preponderante nel settore bancario, che è ora prevalentemente in mani private.
Perché si ricorre a privati?
Per molti motivi: perché riescono a raccogliere risparmi sul mercato, perché hanno maggiori capacità gestionali, perché riescono a realizzare opere con maggiore rapidità, perché lo Stato è sovraccarico di altri compiti.
Il regime concessorio non è, tuttavia parzialmente obsoleto o pericoloso, quando lo Stato è debole e il concessionario è forte? Un esempio è quello delle lobbies dei concessionari del lido del mare, che gestiscono stabilimenti balneari, che sono riusciti a farsi prorogare sempre le concessioni, impedendo che venissero messe a gara.
Così apriamo il capitolo della nuova vita delle concessioni, quella che comincia da quando si è ampliata la portata delle norme costituzionali europee sul divieto di aiuti di Stato. La concessione tradizionale è un provvedimento unilaterale per eccellenza: è lo Stato che decide se far ricorso all’imprenditore-gestore privato e che affida discrezionalmente a questo o a quello. Il diritto europeo non tollera questa situazione perché pone limiti alla circolazione e favorisce alcuni a danno di altri. Una direttiva europea del 2014, seguita in Italia dal codice dei contratti pubblici del 2016, ha trasformato la concessione in contratto di concessione e ha sottoposto a gara l’assegnazione delle concessioni. Dall’unilateralità si è passati alla bilateralità, dalla supremazia al contratto, dall’atto del sovrano al contratto tra eguali.
E la regolazione?
Quella si aggiunge, ma dall’esterno del rapporto concessorio, per la scissione tra concedente e regolatore. Questa progressiva separazione comporta difficili “actiones finium regundorum”, ancora incomplete in molte aree (pensi soltanto alle concessioni autostradali tra ministero delle Infrastrutture e i trasporti – concedente – e Autorità di regolazione dei trasporti – regolatore). Ma questa non è la sola difficile linea di confine: c’è anche quella tra legislazione e convenzione di concessione (si abusa solitamente della prima).
Proprio perché le linee di confine sono in continuo cambiamento, non è più semplice ritornare alla gestione statale per molte attività?
Bisognerebbe prima risolvere molti problemi: se lo Stato non riesce spesso neppure a controllare, come potrebbe gestire? Ne ha mezzi e strutture?
Per le strade ed autostrade ha l’Anas.
Nata nel 1928 come organo statale, divenuta nel 1996 ente pubblico, nel 2002 società per azioni, il cui controllo è passato nel 2018 alle Ferrovie dello Stato. I problemi non sono pochi. In primo luogo, l’Anas spa è essa stessa concessionaria: per acquisire la gestione di altri servizi, dovrebbe concorrere alle gare relative. Inoltre, c’è un problema di dimensioni. L’Anas ha 6 mila dipendenti, e gestisce circa 26 mila chilometri di strade e autostrade, con 13 mila ponti e viadotti e 1.800 gallerie.
Proprio per questo ha tutta l’“expertise” necessaria.
Non basta. Bisogna considerare i vantaggi della concorrenza “sur papier”, per riprendere l’espressione usata in un bel libro di tanti anni fa, di Gabriel Ardant, Technique de l’État (Presses Universitaires de France, 1953) o, per usare la terminologia italiana, coniata nell’area dei servizi pubblici locali, delle “aziende di paragone”. In altre parole, poter avere più gestori consente a concedente e regolatore di acquisire conoscenze, mettere a paragone, controllare meglio. Insomma, il pluralismo fa bene.