Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede

Montesquieu tradito

Compiti amministrativi e personale di magistratura: il “mostruoso connubio” al ministero della Giustizia

E’ stata presentata in Parlamento una mozione di sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia. Le motivazioni sono molte, e alcune provengono dall’interno del corpo giudiziario stesso, perché sono molto analitiche e riguardano temi e dati che è impossibile o difficile conoscere all’esterno. L’accusa principale è quella di aver scarcerato mafiosi. Il ministro viene accusato anche di conoscere intercettazioni che avrebbero dovuto esser note solo al nucleo investigativo del corpo di polizia penitenziaria e all’autorità giudiziaria che le ha disposte. Il ministro della Giustizia si è affrettato a portare al Consiglio dei ministri un decreto legge per “riportare in carcere i detenuti scarcerati”.

Grande confusione. Per quel che si sa, è stata disposta la esecuzione domiciliare della pena detentiva per 376 detenuti, dei quali 196 in attesa di sentenza definitiva, 125 in attesa di giudizio di primo grado. Secondo altre indicazioni apparse sulla stampa, i detenuti in attesa di giudizio sarebbero 231. Le cifre sono incerte, ma riguardano certamente in larga misura persone che non hanno avuto ancora un processo. Al di là di questi elementi di fatto, che sono comunque molto rilevanti, c’è la circostanza che la libertà personale in Italia, in base all’articolo 13 della Costituzione, è nelle mani dei giudici e che le decisioni prese sono dei giudici di sorveglianza, come è giusto che sia, e sono state adottate una per una con riguardo ai detenuti e non possono essere modificate per atto legislativo, perché altrimenti vi sarebbe una invasione del potere legislativo in quello giudiziario. I giudici di sorveglianza svolgono quel compito come giudici, non come “amministratori della pena”. Eseguono l’articolo 123 del decreto legge 18 del 2020, convertito in legge 27 del 2020, il quale prevede che, se la pena non è superiore a 18 mesi, può essere eseguita presso l’abitazione del detenuto, salvo i condannati per reati maggiori e salvo eccezioni fatte per gravi motivi da magistrati.

 

Vuol dire che si è fatta gran confusione tra i poteri, nel senso che le scarcerazioni sono provvedimenti adottati dai giudici di sorveglianza sulla base di una legge? Si può allora aggiungere che il ministro della Giustizia si è difeso in modo inadeguato dalle accuse, a dimostrazione della sua inadeguatezza?

Non ho elementi per valutare l’adeguatezza del ministro. Rilevo soltanto che – se la critica che gli è mossa è principalmente quella relativa alla modificazione della esecuzione della pena – essa dipende da una legge deliberata dal Parlamento, a mio parere con le dovute cautele, e a cui, con decisioni singole, i magistrati di sorveglianza hanno dato un seguito. Quindi, la mozione di sfiducia – per questa parte – finisce per invadere il campo dell’azione della magistratura.

 

C’è quindi, un problema strutturale.

Non uno, ma più di uno. Legati alla “magistratizzazione” del ministero della Giustizia. Il ministero è parte del governo e, quindi, dell’esecutivo, ma una gran parte del ministero è occupata da magistrati, in particolare le posizioni apicali. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è un magistrato. Viene collocato fuori ruolo. Viene nominato dal governo. E’ sottoposto al potere di indirizzo e controllo del ministro, in contrasto con la posizione personale del magistrato, che – dispone la Costituzione – “è soggetto soltanto alla legge”. Il ministro della Giustizia risponde dell’operato dei magistrati-funzionari che operano nel potere esecutivo. Si aggiunga quello che Giovanni Fiandaca ha notato l’8 maggio scorso in un articolo pubblicato sul Riformista: si può dire che un “magistrato antimafia” (noti la nuova categoria) sia la persona giusta per svolgere il ruolo di capo del Dipartimento penitenziario? E’ stato selezionato per questo scopo o è lì perché ritenuto “bon à tout faire”? Consideri che il Dipartimento deve gestire direttamente o indirettamente più di 40 mila persone, tra amministrativi e personale penitenziario, nonché le carceri, che richiedono una gestione alberghiera. Quindi, c’è un difetto che sta nel manico: i magistrati sono scelti per giudicare, ma vengono assegnati a compiti amministrativi, per cui non sono idonei perché non addestrati, né specializzati a questa funzione. Poi, fanno parte di un ordine autonomo, quello giudiziario, ma vengono messi al vertice dell’apparato amministrativo, che è parte del potere esecutivo. Che ne penserebbe Montesquieu, se fosse tra di noi?

 

Capisco: bisogna essere radicali, cioè andare alla radice dei problemi. I posti del ministero sono per amministratori, non per magistrati. Se vengono assegnati a magistrati, si viola la separazione dei poteri e si prepongono ad uffici importanti persone selezionate in base ad altri criteri per un’altra funzione. Si può aggiungere che tutto questo provoca anche una notevole commistione che è in parte all’origine dell’odierna diatriba.

Quello che è accaduto è proprio la dimostrazione di questa conclusione. Tanto più importante in quanto a tutti i vertici del ministero (e non solo ai vertici) vi sono magistrati. Il ministero della Giustizia ha quattro dipartimenti, tutti diretti da magistrati (affari di giustizia, organizzazione giudiziaria, personale servizi, amministrazione penitenziaria, giustizia minorile e di comunità). Solo l’Ufficio centrale archivi notarili è retto da un dirigente amministrativo. Tenga conto che il ministero si interessa, oltre che dell’organizzazione giudiziaria, della vigilanza sugli ordini e collegi professionali, dell’amministrazione del casellario, della cooperazione internazionale, della istruttoria delle domande di grazia e della gestione degli archivi notarili. Per rendersi conto del carico amministrativo del ministero, basta che ricordi che, oltre ai circa 10 mila magistrati, gestisce più di 30 mila funzionari amministrativi, più quasi 3 mila persone del ruolo Unep, quasi altrettanti addetti alla giustizia minorile, quasi 500 addetti agli archivi notarili, oltre, naturalmente, ai più di 40 mila già citati addetti all’amministrazione penitenziaria. I magistrati hanno competenza ed esperienza per la gestione di questi apparati?

 

Come si è formato questo “mostruoso connubio” di compiti amministrativi e personale di magistratura?

E’ un fenomeno che si è sviluppato dopo il primo quarantennio di vita unitaria, durante il quale vi era, invece, l’osmosi giustizia-politica. Il personale di magistratura si impadronì del ministero in epoca giolittiana, quando l’ordine giudiziario era considerato un “settore specializzato della pubblica amministrazione”, cioè la divisione dei poteri era molto imperfetta. Ciò servì a uno scopo corporativo, assicurando sbocchi aggiuntivi di carriera nel periodo della romanizzazione dello Stato. E uno scopo istituzionale, da schermo contro l’ingerenza governativa nella giustizia. Ma ora la Costituzione divide i poteri e assicura l’indipendenza della giustizia mediante il Consiglio superiore della magistratura (anche se i magistrati ne hanno fatto un pessimo uso).

 

Torniamo al punto di partenza: la mozione di sfiducia.

Che mostra uno dei tanti aspetti di questo groviglio tra politica e giustizia che si è venuto a creare. Un magistrato capo di un dipartimento amministrativo si è dimesso per critiche rivolte (anche) alla gestione politica dell’amministrazione carceraria, ma in realtà rivolte o all’attività legislativa del Parlamento o alle decisioni di singoli magistrati di sorveglianza. Aggiunga questo alla politicizzazione endogena della magistratura (specialmente dei procuratori). La Costituzione aveva assicurato uno schermo all’invasione della politica e del governo nei confronti della giustizia. Non contiene schermi per evitare che il processo abbia una direzione opposta, dalla magistratura verso la politica e dalla magistratura verso l’esecutivo. Ne deriva un generale squilibrio tra i poteri. C’è un potere che pesa più di altri, pur essendo il meno “accountable”. Aggiunga le carenze della funzione propria dei magistrati, cioè i ritardi cronici della giustizia. Capirà perché il paese giri da tempo intorno all’interrogativo: chi ci garantirà nei confronti degli organi di garanzia? Chi garantisce che gli organi di garanzia facciano il loro dovere?

  

Tutto questo debordare non produce anche un altro squilibrio, quello che dà luogo a una generale sottovalutazione della disciplina, del riserbo e dell’equilibrio, come disposti dal decreto legislativo numero 109 del 2006?

Il corpo, pur formato da eccellenti giuristi e ottimi giudici, nella sua maggioranza, non è riuscito tuttavia a contenere quei pochi che non sono capaci di rifuggire il “servo encomio” e il “codardo oltraggio”.