La situa - dibattiti universitari

Perché gli atenei italiani non spiccano nelle classifiche internazionali? Idee per l'università

Nella newsletter del direttore Claudio Cerasa, La Situa, c'è uno spazio di dialogo e confronto con i nostri lettori iscritti all'università. Qui gli studenti ci raccontano cosa manca al mondo accademico italiano, tra suggerimenti e proposte per migliorare

La situa, la newsletter del direttore Claudio Cerasa che esce ogni sabato alle 8 (per iscriversi bastano pochi secondi e due clic, da qui), come sapete, offre la possibilità, agli studenti universitari, di avere i propri scritti pubblicati. Ci piacerebbe pubblicare le vostre opinioni su quello che sta accadendo in Italia, in Europa e nel mondo. Scrivete 2.000 battute a [email protected], le migliori saranno pubblicate.
 



Domanda per gli studenti universitari: perché le università italiane non spiccano nelle classifiche internazionali che misurano le qualità dei nostri atenei? 
 




Le università italiane sono strutturate per gli italiani, quelli che vogliono la gavetta, quelli che preferiscono abbattere i sogni degli altri piuttosto che scoprire i propri, spesse volte perché pensano di non riuscirci o almeno questo è quello che hanno sempre detto loro. Gli universitari italiani sono votati al sacrificio, come se la conoscenza fosse attivata al livello neuronale dagli stessi centri che controllano il dolore o la risposta infiammatoria. Frequentemente purtroppo vengono attivati entrambi, portando all’estremo una somatizzazione che cronicizza lo studente, anzi paziente, anche negli anni a venire. Sciocco, folle chi crede che la conoscenza sia fatta di esperienze tangibili, spirito di curiosità e soprattutto, una massima immortale, di errori. Sì, di quelli che ti portano a schiantarti contro un vicolo cieco a tutta velocità, quella delle tue aspettative, delle tue conoscenze, almeno fino al momento dell’impatto. Quindi puoi mettere in discussione, ricrederti e specializzarti. L’università dei folli è fatta di progetti, di bassi costi perché la cultura come l’ossigeno ci permette di vivere e sopravvivere. I professori folli, invece, sono quelli che empatizzano con se stessi, prima che con gli studenti; sono gli stessi che spronano e correggono senza mortificare. Sono quelli che hanno un ego dimensionato alle loro capacità e mansioni e non ne cercano l’accrescimento in aula, a spese di poveri boccacci vuoti. Perché è questo che siamo, magari boccacci riutilizzati dalle esperienze delle precedenti generazioni, in una visione del tutto cristiana ne assumiamo le colpe, se possibile maggiorandole. L’università dei folli non è un élite, non deve dimostrare nulla a nessuno, neanche alle classifiche, deve vivere per la scienza e con la scienza. La follia che intendo in queste righe è quella sete di apprendere, di essere padrone di una scienza per il gusto e la soddisfazione personale che si prova nell’immergersi nelle sue acque, fino a scandagliarne il fondale.
Gli studenti italiani arrivano alla laurea depotenziati, frustrati e stanchi già di aver appreso tutte quelle conoscenze a forza, quasi contro la volontà, perché dai, chi sceglierebbe di imparare un libro a memoria per le perversioni del professore, o magari per le sue manie di grandezza se talvolta il libro l’ha scritto lui. Nell’Università ordinaria, quella dei normodotati (che di dotato hanno poco, tanto meno l’intelletto), in facoltà come medicina o giurisprudenza c’è ancora il diritto di sangue, in cui la carica è affidata per diritto di nascita quasi, "mai mischiare le bucce con le fave!",  si dice in qualche zona d’Italia. Ed eccoci qui, al gioco del contrario dove tutto va prima degli studenti: i fondi, i professori, le cattedre, le infrastrutture, i giochi di potere, i dottorandi, i ricercatori, il personale accademico in generale e poi, quasi dimenticavo l’ultima ruota del carro carnevalesco, gli studenti! Credo sia questa la risposta al perché le università italiane sostano oltre la soglia dei 100 migliori atenei.

Simone Amenta
 


Sono un ex universitario e secondo me quello che manca sono principalmente tre cose.

1) Programmi didattici adeguati: spesso si studiano materie che MAI verranno applicate mentre tutte le altre vengono affrontate in un modo TROPPO TEORICO. 
2) Connessione con il mercato del lavoro: sono poche le università o i percorsi di studio che sono integrati con il mondo del lavoro. In buona sostanza avere la laurea significa poco nulla perché una volta entrati nel mondo del lavoro si deve imparare di fatto da zero.
3) Dottorati di ricerca: i dottori di ricerca sono mal pagati (1200€/mese contro i 4000€/mese della Danimarca) e di conseguenza non si attira capitale umano. Inoltre, una volta conseguito il titolo, o si è disposti a fare il portaborse di quale barone oppure diventare docente è pressoché impossibile. Senza contare che in Italia vengono elargite borse di studio in materie che difficilmente troveranno poi spazio nel mercato del lavoro (storia, lettere, filosofia, eccetera).
Un saluto.

Nicola Comerci
 


La causa della decadenza delle università Italiane degli ultimi quindici anni origina dalla altrettanto decadenza delle ccuole primarie e secondarie: qui è scomparso il ruolo della disciplina, si è dissolta la libertà dell’insegnante di insegnare secondo coscienza, la scuola è diventata un avamposto della famiglia, un'istituzione alla quale si chiede di educare e non di insegnare a stare al mondo.
L’Università si è vista arrivare uno “studente nuovo”, una persona diversa da quelle delle generazioni passate, molto smart e poco avvezza al ragionamento, pronta ad agire ma non ad ascoltare, ed è così che si è adattata, diventando essa stessa una vera e propria impresa, una datrice di lavoro anziché una detentrice e dispensatrice di sapere. Ha rincorso utili e a ogni nuovo settembre ha pensato prima a comprare lo zaino nuovo, scordandosi di acquistare anche le penne e i quaderni.

Lo storico peccato originario dell’università Italiana di essere troppo teorica e poco pratica è oggi diventato un amaro rimpianto che fa i conti con una storia che piano piano scompare e che lascia il passo al "fare prima del pensare". Diceva la mia maestra elementare: "Prima di parlare contate fino a 10". Ho il timore che se lo stesso compito lo dessimo agli studenti odierni, questi, dopo aver contato fino a dieci, non si ricorderebbero più di dover parlare. Non appare, pertanto, strano che l’Italia abbia perso lo storico prestigio della sua cattedra: lo studente è diventato un numero, un dipendente alla catena di montaggio dell’azienda “Università Italiana”, società di capitali e a responsabilità limitata. Anzi con la responsabilità  gigantesca, imperdonabile, speriamo reversibile, di non insegnare più il sapere. Agli atenei italiani manca ciò che manca alla società italiana: la teoria, la buona educazione, meno empatia e più senso di comunità, meno anarchia e più rispetto dell’altro, meno egoismo e più collettivismo, esclusività e al contempo umiltà. Prima di parlare contate fino a dieci, poi però, vi prego, parlate!
Grazie, cordiali saluti.

Federico Calcinai

 


Sono uno studente al secondo anno alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Perugia ed ho frequentato un anno alla facoltà di Farmacia sempre nella città di Perugia. Comincio con il dire che nonostante la Facoltà di Medicina è una tra quelle più ambite dagli studenti, a livello didattico non ha nulla in più rispetto a diverse altre facoltà scientifiche dell’ambito biomedico; cosa che non ci si aspetta da un Corso abilitativo strettamente collegato con quello che è il sistema sanitario nazionale. Vedete, i problemi che oggi noi osserviamo nella Sanità italiana sono da analizzare partendo da quello che è il percorso che il personale che lo costituisce deve affrontare. Partirei quindi dalla didattica perché ogni studente è protagonista del proprio studio, è vero, ma non della propria didattica e per quanto concerne quest’ultima la facoltà di Perugia per lo meno, è indietro di decenni. Osservando anche il semplice materiale che gli  studenti utilizzano, Esso molte volte è rappresentato dalle sbobine, ovvero semplici trascrizioni delle lezioni Frontali dei Professori, molti dei quali non sono sorprendentemente preparati dal punto di vista linguistico a formulare delle lezioni che siano efficaci. Sempre per quanto riguarda le lezioni, bisogna aggiungere che molto spesso i Professori sono affiancati da quelle che sono delle slide di Power point risalenti ad anni precedenti al 2000. Questo molto probabilmente perché non è loro interesse  andare a migliorare il loro percorso di insegnamento, visto che per quanto riguarda le università statali le loro abilità non sono mai messe in discussione nonostante le varie commissioni paritetiche esistenti. Parlando del lato Professori, quello che sospetto è che il sistema universitario sia un sistema nebuloso, dove vanno rispettate determinate gerarchie ed una volta raggiunte determinate posizioni vi è una volontà di immobilismo da parte degli interessati. 

Ciò che unisce il primo punto di cui vi ho parlato (la didattica) con il secondo di cui vi vorrei parlare (le strutture) è il fatto che per quanto riguarda le facoltà di Perugia (non solo medicina, ma anche per quanto riguarda molte altre della città) molti dipartimenti sono lasciati a loro stessi: non vi sono persone presupposte a tenere in funzione le diverse macchine che possono comporre un ambiente di studio inteso come insieme di corsi didattici da seguire e di strutture fisiche da mantenere in piedi. Ciò che manca molto  spesso sono dei punti di riferimento per noi studenti, per quanto riguarda il percorso didattico siamo fermi, perché siamo rimasti con il solito sistema dove vi è solo un lontano rapporto Studente-Professore e ciò che capita molto spesso è che il sovrapporsi di corsi anche a livello di orari riduce quest’ultimo rapporto al rito dell’esame. Risultato: l’università è diventato un esamificio dove ogni prova sembra più un colloquio di lavoro perché c’è una una distanza enorme rispetto ad un percorso lineare che si potrebbe concludere con una prova finale. Entrare nei dettagli è difficile ma quello che posso dirvi è che molti esami hanno programmi sovrapponibili, ma ogni professore necessita delle sue sfumature e dei suoi punti di vista ed in mancanza di ulteriore personale adibito al funzionamento della macchina didattica lo studente si trova costretto a fare delle scelte drastiche come quella di saltare interi percorsi di lezioni legate ad un determinato corso (quello che vi dico è il fatto più evidente che si possa notare nella mia facoltà come in molte altre e di questo sono coscienti anche i professori). Arriviamo al secondo punto che è quello legato alla struttura fisica dei dipartimenti. È terrificante e moralmente errato il fatto di accettare che in Italia vi siano dei dipartimenti ridotti a qualche corridoio e qualche aula, posti in situazioni disastrose. Non posso dilungarmi sui disservizi ed i vari crolli strutturali a cui ho assistito in questi anni di università, ciò che mi preme dirvi è che non è giusto che non vi siano degli adeguati e stimolanti spazi comuni per lo studio sia individuale che collettivo, perché l’Università deve essere un luogo di aggregazione soprattutto in un periodo in cui quest’ultima cosa manca molto, anche  al di fuori del contesto universitario. Ed è proprio da qui che bisognerebbe indagare anche quelli che sono i problemi legati alla salute mentale dei giovani. L’università dovrebbe permettere a chi desidera di crescere insieme ad altri in modo tale da mantenere costante la possibilità di coltivare quelle qualità umane che necessitano di un allenamento costante, non bastano gli anni di scuola fino alle superiori.

Carlo Scargiali
facoltà di medicina all’Università degli studi di Perugia
 


Sto nel dormiveglia e scrollo Instagram, leggo le varie notizie e una su tutte mi balza all’occhio: tra le prime cento università del mondo non ce n’è una italiana. Allora mi metto a pensare ad alcuni motivi sul perché i nostri atenei non brillano in questa classifica internazionale.  Ci sono forse alcuni parametri che qui trascuriamo e che all’estero prendono più seriamente. Il primo riguarda lo scollamento esistente tra l’università e il mondo del lavoro, già se penso al mio indirizzo specialistico Editoria e Scrittura, dove una volta conseguito il titolo non hai nulla, se non il fatto che tu debba fare altri corsi o sostenere altre spese. Se vuoi diventare giornalista devi trovare un giornale e sperare che finanzi il tuo percorso, cosa non affatto scontata. Se, invece, vuoi lavorare nel mondo dell’editoria libraria devi apprendere un percorso da capo, poiché sei molto preparato sulla teoria, ma sulla pratica (ad esempio una correzione di bozze) non sei formato adeguatamente. E questi problemi riguardano anche altre facoltà, dove far pratica e prendere una certa confidenza con il mestiere è di vitale importanza. A questa carenza si aggiunge la mancanza di fondi, che non permette di fare investimenti più idonei.  In altri casi a gravare sul basso posizionamento dei nostri atenei è anche la questione trasporti, come accade nelle università di provincia, in cui dopo un certo orario non è più possibile ritornare in paesini che distano 30-40km. A Campobasso, ad esempio, se un corso termina alle 19:30 per raggiungere un paese in montagna a mezz’ora di mezzi, o bisogna farsi venire a prendere da qualche amico o parente, oppure bisogna fermarsi nel capoluogo e ripartire il giorno seguente. Un’ultima questione è il caro affitti, non tutti possono permettersi di vivere in città come Roma, Milano o Bologna, dove ormai i prezzi aumentano sempre più di anno in anno. Queste problematiche riunite, probabilmente, generano l’abbassamento in classifica delle università italiane.  

Daniele Altina 
Studi Internazionali di Roma

 

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