Foto LaPresse

La situa - dibattiti universitari

A proposito di Javier Milei

Abbiamo chiesto agli studenti universitari cosa c'è del modello Milei che l'Italia potrebbe far proprio

Il giudizio sulla possibile replicabilità del modello di Milei in Italia deve tener conto dei due elementi di cui è costituito: il nucleo ideologico, liberista, e l’involucro politico, rappresentato dall’esuberanza del personaggio e dei suoi modi. Nel paese che, secondo alcuni, ha inventato il populismo nella sua versione 3.0. con i V-Day dei 5Stelle - dai quali peraltro Milei ha attinto alcuni leitmotiv, come i messaggi contro la “casta” politica - non sarebbe certo una novità vedere un aspirante presidente utilizzare toni e vocaboli non propriamente da Prima Repubblica, giammai lo sarebbe per gli elettori di centrodestra, ormai avvezzi al linguaggio sovranista. Al contrario, una novità sarebbero i messaggi veicolati da quel pacchetto di gesti non convenzionali tipici di Milei, l’opposto dell’assistenzialismo pentastellato o dall’economia “sovranista” della Meloni che con il suo omologo argentino, nonostante gli scambi continui di abbracci e sorrisi, sembra condividere soltanto l’accanimento ideologico contro la cultura woke, unico collante tra due idee di destra molto distanti tra loro. Del resto l’Italia, a differenza della maggior parte dei paesi occidentali, è stata orfana nella storia recente di un grande partito di destra autenticamente liberale, nonostante l’importanza politica e ideologica di uomini liberali nelle tappe fondamentali della sua storia: Cavour nella costruzione, Croce nella Resistenza, Einaudi nella ricostruzione del paese. Tutto ciò, tuttavia, non preclude la possibilità che, un giorno, il grande sogno di un governo liberale possa avverarsi: un discorso simile, se non addirittura maggiormente pessimista, poteva essere applicato all’Argentina, per anni in balia di populismi di sfumature politiche differenti con un denominatore comune: l’aumento vertiginoso della spesa pubblica e dell’inflazione, che hanno portato un popolo antropologicamente estraneo al liberalismo a sceglierlo come medicinale da assumere nelle dosi più massicce. Il farmaco Milei sarebbe sicuramente un toccasana per un paese come l’Italia, l’Eden degli sprechi governativi, in cui, forse, al posto della motosega, farebbe più comodo un bulldozer per radere al suolo la foresta della spesa pubblica. La speranza è che il popolo italiano non attenda di arrivare sull’orlo del baratro prima di affidarsi ad una soluzione di questo tipo ma l’ assenza di una seria proposta liberale testimonia quanto il modello Milei, per essere accettato dagli italiani, debba prima essere accettato dalla classe politica.

Filippo Vuocolo
Studente di International Economics and Finance all’Università Bocconi di Milano

 


  
       
Il modello proposto da Javier Milei, già implementato in Argentina, rappresenta una risposta radicale ma efficace alle economie stagnanti e ipertassate ed è non solo applicabile, ma necessario anche in Italia. È un modello liberista già applicato in  alcuni dei paesi più prosperi al mondo – tra cui Svizzera, Irlanda e Hong Kong – si basa su principi chiari: basso indebitamento, bassa tassazione, intervento pubblico ridotto e un ambiente favorevole alla concorrenza e alle imprese. Persino economie emergenti come la Thailandia ne applicano i principi con successo, dimostrando che meno Stato e più mercato favoriscono innovazione, progresso, occupazione e attrazione di investimenti esteri.
L’Italia, al contrario, soffre di un eccessivo intervento statale, di una tassazione soffocante e di una giungla inestricabile di partecipate pubbliche. Il risultato? Sprechi, inefficienza e un sistema che spesso premia gli “amici degli amici” piuttosto che il merito e l’innovazione. Secondo l’Indice globale della libertà economica, l’Italia è al 46° posto, un dato imbarazzante per una delle principali economie mondiali.
La promessa implicita di uno Stato iper-presente è che più tasse e più spesa pubblica equivalgano a migliori servizi. Ma la realtà italiana sembra dire il contrario: i cittadini pagano molto, ricevono poco e assistono a un continuo spreco di risorse pubbliche. La burocrazia frena le imprese, la pressione fiscale le soffoca e il sistema economico sembra costruito per servire interessi di pochi, anziché il bene comune.
In questo contesto, la "motosierra" di Milei – la drastica riduzione della spesa pubblica e della presenza statale nell’economia – significherebbe riportare nelle mani dei cittadini i frutti del loro lavoro, stimolare la concorrenza e attrarre investimenti esteri. La crescita economica non si crea con lo Stato che invade ogni settore, ma con un sistema che valorizza la libertà economica e premia l’efficienza.
Questa non è solo una questione economica, ma morale: uno Stato meno invadente significa più libertà per i cittadini e più opportunità per chi vuole crescere e innovare. Milei ha dimostrato in Argentina che un cambio radicale è possibile. La domanda non è se il modello sia applicabile in Italia, ma piuttosto: la politica ha il coraggio di attuarlo?
 
Giacomo Marani Tassinari
Studente presso il Politecnico di Milano

 


 
   
Tagli alla spesa pubblica, liberalizzazioni e concorrenza: l’Italia può imitare il modello di Javier Milei? E soprattutto, ci converrebbe?

È ora trascorso il primo anno di mandato del presidente dell’Argentina spesso definito “di ultradestra”. Evidentemente “libertario” suona da romanzo di fantascienza, e non promettere sussidi viene ricondotto al fascismo (che invece si basa proprio sull’onnipresenza statale) secondo l’equivalenza cattivo=fascista. Il laissez-faire non è infatti contemplato nello scacchiere destra-sinistra che da quasi un secolo divide il mondo, non centrando invece l’unica vera contrapposizione: statalismo-liberismo.
In Italia, in particolare, la cultura liberale è morta con i revenants antifascisti Einaudi, De Nicola, Orlando, Nitti, che troppa poca voce ebbero nella stesura della Costituzione,  percorsa nei rapporti economici da istituti quali nazionalizzazione e collettivizzazione (art. 43). L’Italia è il paese della burocrazia, degli enti pubblici e delle tasse tentacolute. Si è tentato, solo per necessità, negli ultimi 30 anni di privatizzare qua e là, ma ciò non è abbastanza.
Un solo anno di Milei dimostra come si possa diminuire l’inflazione dal 25 al 2,4% e come ognuno di noi sappia meglio di chiunque altro cosa è giusto per sé stesso. Sono solo i primi risultati di una nazione in cui cresce sempre più la torta dell’economia, che ancora troppi in Italia ritengono sia immobile e perciò se qualcuno si arricchisce qualcun altro si impoverisca.
Certo, questo modello non è di facile transizione: non può essere una sorpresa che la disoccupazione aumenti se vengono licenziati decine di migliaia di dipendenti pubblici con mansioni inutili, ingranaggi di servizi che non hanno concorrenza e quindi nessun incentivo a migliorarsi. Ma se davvero un paese vuole risollevarsi da una perenne crisi economica deve costruire ricchezza, e gli unici che possono farlo sono gli individui, purché lo Stato non succhi il 48% di quanto un’azienda produca, come succede in Italia.
È tempo che il nostro Paese si snaturi e abbandoni la presunta sicurezza dell’eterno aiuto statale per poter finalmente crescere.

Tommaso Bellon
Studente del secondo anno di Giurisprudenza all'Università di Padova

 


  
         
Ritengo che il modello Milei sia adatto solamente in parte al sistema Italia. Continuo a credere in uno stato forte, che aiuti i più deboli, che investa in istruzione, sicurezza e sanità. Per questo motivo, guardo con diffidenza a tagli drastici della spesa pubblica, soprattutto quando sappiamo che i primi a soffrire sarebbero sempre le fasce più vulnerabili della popolazione, e con esse le regioni del Sud. Invece di intraprendere una strada che taglia indiscriminatamente risorse al welfare, non sarebbe meglio focalizzarsi su riforme strutturali che riducano realmente i costi? Parlo, ad esempio, della giustizia, che potrebbe essere snellita attraverso una gestione più moderna e rapida, o della pianificazione di grandi progetti infrastrutturali che da decenni restano irrealizzati, come il fantasma del Ponte sullo Stretto. In questi settori sarebbe possibile ottenere risparmi concreti senza mettere a rischio il nostro stato sociale. Guardo invece con favore alla liberalizzazione di alcuni settori strategici: vengono subito in mente i settori dell’energia e dei trasporti, ma conosciamo tutti la difficoltà di queste sfide. Quello che in definitiva occorre all’Italia sono riforme strutturali serie, eseguite senza guardare ai sondaggi e cercando di mettere da parte i colori politici. Quello che inoltre sfugge all’occhio dell’esaminatore populista è che Argentina e Italia sono due paesi radicalmente differenti, l’uno con tassi di inflazione che superano il 100% annuo, la moneta locale che perde valore in maniera costante, l’altro che dentro all’Unione Europea si trova (per fortuna) vincolato a politiche fiscali e monetarie più severe. Questi contesti diversi rendono, a mio avviso, qualsiasi confronto tra i due non solo poco utile, ma anche fuorviante. 

Federico Ignizio
palermitano che da anni studia all’estero