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La situa - dibattiti universitari
Dobbiamo temere Trump?
Abbiamo chiesto agli studenti universitari cosa ne pensano di Trump, cosa temono, cosa non temono
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La cosa che più spaventa di Trump non è l’estrema facilità con la quale ha saputo far presa su tutte le frange dell’elettorato americano, bensì la capacità di porsi a guida di un movimento che oggi, dall’Europa (con personaggi come Orban in Ungheria) al sud america (pensiamo a Milei e Bolsonaro) all’asia (Ricordate Duterte, nelle Filippine?) pare inarrestabile: quello della polarizzazione politica.
Non vi è alcuno spazio per il compromesso; o stai con me, con le mie idee ed ideologie e le supporti al 100% o stai contro di me. Chiunque non la pensi allo stesso modo è da considerarsi alla stregua di un nemico, che va osteggiato, deriso e delegittimato a qualunque costo. In persone come Trump (e in chi nel suo modus operandi trova terreno fertile per la propria campagna elettorale) oggi non vi è alcuna volontà di scendere a patti con quello che dovrebbe essere il vero interesse di ogni buon politico, ovvero la rappresentanza e l’affermazione degli interessi di tutti i cittadini. Ci si sente oramai legittimati, forti dell’enorme consenso popolare, a schiacciare l’avversario a colpi di slogan, aggressività verbale e soprattutto mediatica senza rendersi conto dell’enorme ed all’apparenza insanabile spaccatura che si va creando sempre più all’interno della nostra società. Oltre la retorica e l’aggressività di una politica sempre più spaccata, altro aspetto che fa preoccupare è il possibile compromesso con figure come Putin o Kim Jong-un o lo stesso governo israeliano (vero, oggi festeggiamo un cessate il fuoco, ma una delle prime firme sui decreti esecutivi del presidente è arrivata su un documento che toglie le sanzioni ai coloni in Cisgiordania, provvedimento della precedente amministrazione Biden). Come si comporterà l’Europa, ricattata in campo economico con dazi pesantissimi e con rapporti diplomatici che vanno verso un inevitabile minimo storico, con un Trump che minaccia di togliere fondi alla NATO e con una guerra alle porte?
Daniele Ardiccioni
studente di Scienze politiche ed istituzioni europee (SIE) alla statale di Milano
Mi chiamo Giulia Giusti e sono una studentessa di 19 anni della facoltà di Scienze politiche - curriculum internazionale, all’università di Pisa. Per rispondere alla domanda, considerando i toni piuttosto duri usati dal neo insediato presidente degli USA Donald Trump, al suo secondo mandato, vorrei concentrare l’attenzione sulla problematicità stessa del tono scelto: un modo di porsi ed interloquire non rassicurante, alimentato da machismo e da un senso di legittimazione in virtù del quale Trump si colloca in una posizione privilegiata rispetto agli altri Paesi, non celando, nemmeno apparentemente, la sua aspirazione ad un’egemonia noncurante nei confronti dei diritti altrui. Il suo atteggiamento é nostalgico di un passato poco democratico e inclusivo, marcatamente razzista e lontanissimo da quell’empatia minima che sarebbe richiesta ad un Presidente coerentemente con il principio della rappresenta legale. Sono molteplici e trasversali i temi su cui potremmo dibattere: dall’immigrazione, all’aperta conflittualità dichiarata all’Unione Europea attraverso un’annunciata guerra dei dazi, alle rivendicazioni territoriali illegittime che altro non sono che elementi della sua propaganda distorta per convincere ulteriormente il suo elettorato, la vicinanza e la stretta partnership economico-politica con ultra ricchi detentori dei grandi mezzi dell’informazione moderna, o ancora la reintroduzione della pena di morte federale. Ma ciò che lega tutte queste tematiche e le rende equamente spaventose e angoscianti é proprio il significato che Trump intende dare loro: "Make America Great again" é un motto che in sé include e prevede esiti possibilmente violenti, aggressivi, sicuramente discriminatori ed elitari, che svantaggeranno la classe medio-bassa, la quale pagherà sulla propria pelle le conseguenza di questa rielezione, che fra l’altro è avvenuta in un contesto in cui Trump é decisamente più potente rispetto al precedente mandato. I democratici non sono stati in grado di trovare le argomentazioni decisive per spostare o mantenere dalla loro parte l’elettorato statunitense, ma resta un dato di fatto che, per un motivo o l’altro, Trump é riuscito a conquistare, questa volta, anche il voto popolare, essendo dunque sostenuto da un consenso più solido. Adesso gli statunitensi sono nelle mani di un aspirante oligarca, ma il problema vero è che anche noi europei e il mondo in generale ne subiremo il costo, senza averlo deciso in prima persona, e saremo chiamati a rispondere delle sue richieste ed esigenze, già ripetutamente manifestate, nei confronti degli alleati degli USA.
Giulia Giusti
studentessa della facoltà di Scienze politiche dell'Università di Pisa
Il 20 gennaio Donald Trump ha pronunciato un discorso volitivo e trionfale, dai toni ispidi e impietosi. Il riflesso di una società esausta e alla ricerca di un uomo forte che sappia valorizzare gli Stati Uniti per quello che sono, la prima economia del mondo. Le dichiarazioni di Trump ci fanno paura, alcune ci terrorizzano. La veemenza, così ruvida, con cui ha annunciato l’uscita dagli accordi di Parigi, l’emergenza immigrazione sul territorio americano, l’esistenza di due soli sessi. E lo ha fatto con espressioni forti che ci appaiono lontane da quel progresso che le società occidentali hanno perseguito attraverso secoli di lotta politica, indipendentemente dall’orientamento. Eppure, dal mio punto di vista, l’impetus con cui il nuovo Presidente si esprime vuole essere più simbolico che fattuale. Trump vuole marcare una forte distanza dall’amministrazione precedente che viene dipinta, nel suo discorso, come l’Anticristo. Ora è arrivato il momento del Giudizio Universale, e a trionfare è Trump che annuncia una nuova Golden Age in cui gli Stati Uniti sono la civiltà da proteggere e valorizzare e non più il popolo da redimere per gli errori commessi secondo l’ideologia woke. Il discorso ha dunque assunto i toni epici di un “inizio della storia”. Se nel 1989 Francis Fukuyama aveva profetizzato la “fine della storia”, immaginando, dopo il crollo dell’Unione sovietica e la fine della guerra fredda, un futuro pervaso dal liberalismo e dall’unipolarismo americano, meno di cinquant’anni dopo assistiamo alla messa in discussione di questo modello. Il positivismo e l’ottimismo senza misura della globalizzazione hanno dovuto scontrarsi con la realtà dei fatti, con un mondo che, per quanto sviluppato, non riesce, per sua natura, a perseguire una “pace perpetua”. Trump si inserisce in questo filone. Gli Stati Uniti devono tornare ai loro sogni di gloria e gli strumenti sono l’isolazionismo, il disimpegno internazionale e una retorica nazionalistica che agli Americani, infondo, era mancata.
Letizia Maria Fappiano
studentessa di laurea magistrale presso la Luiss Guido Carli
Leggendo le dichiarazioni di Trump durante il suo insediamento mi hanno colpito due aspetti.
Innanzitutto ho notato come il suo discorso fosse un discorso da campagna elettorale, non da uomo di stato. Conosciamo tutti i toni eufemisticamente aspri del neo presidente, ma ritengo preoccupante come non sia intenzionato a voler rappresentare una nazione intera, ma solamente la sua fazione. Senza voler usare toni catastrofici, ho però notato come il MAGA sia un movimento dentro lo stato, e in molti casi contro lo stato (vedasi lo scontro con il "deep state"); ciò ricorda la splendida analisi di Hannah Arendt ne “L'origine dei Totalitarismi”, che appunto nascono da movimenti che sostituiscono e distruggono lo stato. Ciò è preoccupante non perché intravedo un nuovo fascismo all'orizzonte, ma poiché lo stato dovrebbe garantire diritti e rappresentanza a tutti, a maggior ragione alle minoranze. Non dimentichiamoci che anche la maggioranza può compiere orrendi crimini.
In un contesto più ampio, Trump a mio avviso smaschera inoltre la generale crisi geopolitica tipica delle democrazie. Provo a spiegarmi meglio: noi fieri cittadini della civiltà liberale e democratica tendiamo a pensare le alleanze in politica estera in chiave morale: alleati con le democrazie contro le dittature. Ciò implica che l'interesse nazionale va subordinato alla ricerca di un'alleanza inter-democratica, contro il cosiddetto "Asse del Male" che minaccia la nostra sicurezza; da questo presupposto si può spiegare ad esempio perché inviare armi all'Ucraina e non ad un belligerante nel conflitto Sud Sudanese. Ma Trump vuole riscrivere il tutto, non a caso non manca di provocare la Danimarca ed il Canada, sbandiera un isolazionismo che colpisce maggiormente i suoi alleati Europei e non invita i rappresentanti UE al suo insediamento. Da questo nuovo contesto non ci rimane che ripensare la politica estera, che dovrà riuscire, anche nel breve termine, ad essere puramente europea.
Saluto la redazione de Il Foglio e tutti i lettori,
Leonardo
Statale di Milano
Il discorso di Trump fa certamente paura, ma non è la paura di una deriva estremistica delle democrazie occidentali. Il discorso di Trump fa paura al mondo dal momento che, dopo quattro anni di politica americana sonnecchiante e distratta come il proprio presidente, veniamo improvvisamente rammentati di una semplice verità: l’America è il Paese più potente che c’è. Lo era sempre stato, anche in questi anni in cui è apparsa al mondo attraverso le movenze lente e goffe del suo anziano presidente, e sembravamo essercene dimenticati. Dopo quattro anni, guidati da quello che tantissimi hanno definito il peggior presidente della storia a stelle e strisce, il ritorno di Trump non poteva essere che irruente, risoluto, tumultuoso: un ritratto stesso del tycoon, della sua storia e del suo aggressivo arrivismo, come nell’attesissimo film biografico appena sbarcato in Italia. Coincidenza? Sin dalla fase di campagna elettorale, le intenzioni del presidente neo eletto sono apparse ben chiare: intervenire proprio su quel fronte dell’immagine, restituendo al mondo l’America forte ed operosa, autorevole e dinamica che è sempre stata, quella che Churchill aveva brillantemente dipinto come “il ragazzone gagliardo che calpesta la tua sensibilità, cui né l’età né la tradizione ispirano rispetto, e che pure si muove in mezzo ai suoi affari con una freschezza spensierata”. Certamente, dunque, un aspetto che incute paura, se non paura quantomeno soggezione. Non a caso, con Trump arriva anche il più eclatante cambio di rotta della storia d’America. Una serie impressionante di provvedimenti già pronti, un lavoro fatto in anticipo come se ci fosse il timore che quattro anni potrebbero non bastare a fare tutto. Cosa ci attende, dunque? Non credo ad alcun timore di catastrofica deriva autoritaria dell’Occidente, ma di una cosa son certo: credo nella deriva – già in corso e non da sottovalutare – della polarizzazione. Trump, Musk, Meloni sono personaggi polarizzanti, in Italia come altrove, e dividono la popolazione in due frange opposte: una destroide di sostegno più o meno cieco, anche dinanzi a gesti inaccettabili, l’altra di opposizione sinistroide altrettanto cieca, e spesso macchiata da un deficit non meno grave: l’ignoranza. Dov’è finita la moderazione dei toni e dei gesti, dove la ponderazione dei giudizi? Trump, l’America, Musk, fanno paura quanto la deriva di una società polarizzata nelle vedute e nei giudizi.
Davide Roca
studente iscritto al Corso di Laurea Magistrale in Consulenza Professionale e Finanziaria presso l'Università di Salerno
Uno degli insegnamenti più importanti che possiamo trarre dagli orrori (ed errori) del passato è quello che riguarda la possibilità che l’uomo ha di compiere il male.
Quali frutti si possono cogliere da un insegnamento tanto apparentemente crudo? Stare di fronte a qualcosa di tremendo può provocare un senso di scoramento che ci lascia attoniti e sbigottiti: abbiamo paura. Conseguentemente temiamo e aggrediamo tutto ciò che è all’origine di questa paura. L’esperienza personale di ciascuno, tuttavia, suggerisce che quando la paura diventa il motore delle nostre azioni, genera soltanto ulteriore odio e ulteriore sofferenza, che feriscono le profondità dell’umano. “La paura è la via per il Lato Oscuro”, direbbe il maestro Yoda della saga di Guerre Stellari.
Primo frutto: non lasciarci vincere dalla paura (e fuggire al confronto col passato), ma provare ad osservare attentamente i fenomeni in tutta la loro complessità, senza dare giudizi che potrebbero essere affrettati e senza giustificare per niente gli orrori che si osservano. In questa osservazione del fenomeno, si potrebbe scoprire che, spesso, la violenza di certi orrori ha origine a partire dalla pretesa di conoscere una verità e in nome della stessa schiacciare tutto e tutti. “L’errore è una verità impazzita” (Chesterton scripsit).
Secondo frutto: mantenersi in una posizione che non assolutizzi certe posizioni che, in ultimo, slegano l’uomo dalla realtà (si riguardi l’etimo ab-solvere): è quello che è accaduto con le ideologie del Novecento, di cui tutti conosciamo gli errori.
Il terzo e ultimo frutto, sintesi dei precedenti, può essere così riassunto: guardare alla storia che ci ha preceduto cogliendo i tratti decisivi che hanno portato all’originarsi di determinate situazioni, provando a trovare a determinati problemi, risposte adeguate. Scopriremmo, per esempio, che si può essere in disaccordo su come vivere certe situazioni, senza temere (e quindi voler sopprimere) la diversità dell’altro ma provando a dialogare per giungere insieme, alla conoscenza della verità.
Conoscere e accettare la propria storia è il primo passo per poter provare a cambiare ciò che siamo oggi.
Giuseppe Conti
Politecnico di Torino