La situa - dibattiti universitari

A proposito del caso Almasri

Abbiamo chiesto agli studenti universitari di discutere attorno al caso di Almasri. Abbiamo ricevuto molte risposte. Ecco le migliori

Abbiamo chiesto agli studenti universitari di discutere attorno al caso di Almasri. Abbiamo ricevuto molte risposte. Ecco le migliori. Se volete scrivere anche voi, potete mandare un contributo a [email protected]

  


    

Il quesito posto tramite la pagina social del Vostro giornale, ha suscitato in me una forte curiosità, anche perché ho seguito recentemente un corso incentrato sulla sicurezza nazionale, il quale mi ha dato degli ottimi spunti per rispondere.

Secondo la mia personale opinione uno Stato non solo può agire, ma deve agire senza dover dare spiegazioni (in determinate condizioni) ai suoi cittadini. Infatti, il quesito da cui parte la mia tesi, è strettamente collegato al caso Almasri che ha smosso notevolmente il dibattito pubblico. E senza entrare nel merito della questione, che presenta come punti chiave dei nodi tecnico-giuridico non indifferenti, voglio concentrarmi sul concetto di sicurezza nazionale. Essa è un’idea che abbiamo assunto dagli USA, che ben prima di noi avevano iniziato a ideare delle misure, spesso segrete, volte a proteggere l’idea di stato nazione da minacce che potessero metterne a repentaglio l’indipendenza politica, l’integrità territoriale e la coesione sociopolitica. Infatti, ascoltando i think-thank statunitensi del post 11 Settembre, sentiremo molte volte utilizzare questo concetto per giustificare le misure adottate contro il terrorismo. E sicuramente, ciò portò anche a nascondere alla cittadinanza le misure più drammatiche e sbagliate, come può ad esempio essere la base (non più segreta) di Guantanamo. Questo concetto poi è stato trasportato anche in Europa, che con varie sfaccettature lo ha fatto proprio, e a volte lo ha utilizzato per bloccare il diritto Europeo, giustificando che determinati compiti dovevano rimanere prerogative nazionali, in nome proprio della ‘’sicurezza nazionale’’. Ed è proprio di essa, che ha parlato l’ex Ministro degli Esteri Marco Minniti, relativamente al caso Almasri in una recente intervista al Corriere della Sera. E dalla sua dichiarazione è eloquente quale sia la sua idea, infatti citando testualmente l’ex Ministro: "La Libia era ed è una questione di interessa nazionale al suo livello più alto: la sicurezza nazionale, cioè l’incolumità anche fisica di ogni cittadino. Un pezzo grande di sicurezza nazionale si gioca fuori dai confini nazionali". Ecco, è proprio questa l’idea che voglio esprimere, cioè quella di un interesse così alto per cui, in determinate situazioni, bisogna compiere degli atti, che vanno al di là del dibattito democratico e sociale. Ciò che voglio esprimere, è quindi l’idea che uno Stato debba permettersi di porre in essere misure di vario genere, anche senza la condivisione con la cittadinanza, al fine di proteggere i suoi interessi geo-strategici. Con questo non voglio dire che qualsiasi misura possa essere utilizzata, per cui non parlo di omicidi mirati, stragi o atti contrari ai diritti costituzionali e umanitari così come enunciati dalle Convenzioni a cui aderiamo. Parlo di dialoghi, accordi e misure di soft-power (un termine anglofono che si riferisce alla capacità di convincere, persuadere, attrarre e cooptare tramite i valori e le istituzioni della politica), al fine di preservare gli interessi e le prerogative di uno Stato sovrano come lo è l’Italia.

Simone Sangermano
studente universitario al IV di giurisprudenza, Università di Trento


Nel caso del libico Almastri, arrestato a Torino e rimpatriato dal Governo italiano, emerge una circostanza inusuale, un minimo comune denominatore tra le dichiarazioni di esponenti politici di maggioranza ed opposizione. Entrambi concordano, infatti, sulla gravità dei crimini di cui il soggetto è accusato dalla Corte Penale Internazionale ovvero crimini di guerra e crimini contro l'umanità.

Tralasciando le questioni interne attinenti all'ormai tradizionale scontro tra politica e magistratura italiana, il tema centrale da analizzare sembra essere, piuttosto, quello concernente i rapporti tra l'Italia e la Corte Penale Internazionale (da un lato) e tra l'Italia e la Libia (dall'altro).

L'Italia riconosce la giurisdizione della Cpi, è altresì parte dello Statuto di Roma che la istituisce, ma al tempo stesso intrattiene relazioni bilaterali, per ragioni di mera opportunità, con la Libia (si pensi al Memorandum del 2017, siglato dall'allora ministro del Partito Democratico Minniti e più volte rinnovato successivamente). In questo contesto, è chiaro all'opinione pubblica come la decisione di rimpatriare il libico Almastri potrebbe rispondere ad esigenze di sicurezza nazionale o di equilibri geopolitici, senza dover essere necessariamente giustificata.

Tuttavia, sorge un ulteriore interrogativo: è giusto che un soggetto, i cui crimini siano già stati accertati fin dal 2022 da un report redatto da un "Panel of experts" incaricato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sia stato lasciato a piede libero, a fronte di un mandato di arresto della Cpi? La domanda potrebbe avere risposta affermativa, se solo la "Ragion di Stato" fosse stata eccepita dal Governo.Dal momento che ciò non è avvenuto, si potrebbe pensare forse che il Governo italiano voglia "sfruttare" il caso del libico, per elevare lo scontro politico con la magistratura, anche a livello sovranazionale, mettendo in evidenza gli evidenti limiti della Cpi?

Gianpaolo Lista
studente di giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bari "Aldo Moro"


Nel corso di un’informativa al Senato, il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi ha motivato l'espulsione di Al-Masri sottolineandone la pericolosità sociale. «L’espulsione è stata la misura più appropriata per salvaguardare la sicurezza dello Stato e la tutela dell'ordine pubblico», ha dichiarato Piantedosi, facendo esplicito riferimento alla “ragion di Stato” per giustificare la decisione del governo. Una scelta che, sebbene formalmente legittima, solleva interrogativi su trasparenza e tenuta democratica. Il concetto di “ragion di Stato” ha radici antiche: come già scriveva Giovanni Botero nel 1589, essa indica l'insieme di mezzi necessari a mantenere ed espandere il potere statale. Il problema di fondo, però, è che l’espressione “ragion di Stato” è in sé vuota, priva di un significato proprio. Certo, quella «notizia di mezzi atti a fondare e conservare ed ampliare un dominio così fatto» ci può sembrare – e non a torto – una condicio sine qua non dell’esistenza stessa dello Stato, qualunque sia la forma di governo che lo caratterizza. Tuttavia, si tratta di un principio generico, che in sé non rimanda ad alcuno degli istituti previsti dalle moderne democrazie liberali. È, in sostanza, uno “spazio grigio” che desta parecchi dubbi. Quello che in questa sede si contesta, quindi, non è che possano esistere degli strumenti che rendano effettiva la cosiddetta “ragion di Stato” (ad esempio il ben noto “segreto di Stato”), ma molto più semplicemente che questa non possa essere chiamata in causa – almeno all’interno di un contesto liberal-democratico – senza far riferimento a quei mezzi di cui lo Stato di diritto si avvale. Detto in altri termini, il segreto di Stato è, sebbene contestabile da certi punti di vista, legittimo, e soprattutto regolato da una normativa (ancorché la sua apposizione conceda grande discrezionalità al Capo del Governo), cosa che invece non si può dire della generica “ragion di Stato”. In un contesto liberal-democratico – sempre a parere di chi scrive – non dovrebbero esistere “spazi grigi” come nel caso Al-Masri, in cui il governo, pur non impiegando i suddetti mezzi, non rende nemmeno nota l’intera dinamica dei fatti. In uno Stato che non sia la Russia o l’Iran, vi deve essere completa trasparenza oppure l’applicazione di vincoli giuridici chiari e definiti. Tertium non datur.

Luca Ceriotti
studente di scienze politiche e delle relazioni internazionali presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano


Il polverone che si è innalzato alla Camera e nell’opinione pubblica negli ultimi giorni sul caso Almasri ha visto le opposizioni unite in coro per richiedere un chiarimento sulla vicenda da parte dei diretti interessati, in primis la Premier Meloni, la quale però ha preferito lasciare che fossero Nordio e Piantedosi a prendere parola, sollevando così ulteriori critiche. In una democrazia, la trasparenza dello Stato è indubbiamente un valore di massima centralità, il quale può essere ignorato solo in casi estremi opponendo il segreto di Stato su un determinato fatto. L’applicazione di quest’ultimo è però molto problematica, prima di tutto perché deve essere accertata la pericolosità che un tale fatto, in caso venisse divulgato, avrebbe per la sicurezza della Nazione; ma anche perché apporre il segreto di Stato, specialmente su un caso come quello di Almasri, implicherebbe delle conseguenze politiche decisamente importanti. Ciò, infatti, equivarrebbe ad ammettere la presenza di interessi del governo nella scarcerazione di un torturatore legato al traffico di migranti, rendendo quindi concreta la probabilità di un tentativo di ricatto ai danni dello Stato.
Tutto questo andrebbe a macchiare l’immagine del governo, soprattutto in seguito alle parole di Meloni, la quale ha pubblicamente dichiarato di non essere ricattabile, in occasione del video pubblicato sui social del 28 gennaio.
Uno stato democratico può quindi avvalersi, in determinate situazioni ed entro i limiti imposti dalla legge, del segreto di Stato, tenendo ovviamente conto del fatto che spesso ciò porta a delle conseguenze politiche che possono rivelarsi altrettanto dannose per il governo agli occhi dell’opinione pubblica.

Giovanni De Carli
studente di Storia in triennale all'Università di Padova


Menomale che esistono strumenti giuridici che permettono ad apparati dello Stato di agire al di fuori dello spazio del dibattito pubblico e della trasparenza amministrativa. Menomale che il perseguimento degli interessi strategici di un paese, che si proiettano per definizione in un orizzonte temporale più ampio, non è inquinato dalle contingenti e frettolose opinioni di chicchessia. E menomale che la realpolitik di bismarckiana memoria è un categoria che non invecchia mai. Viva il segreto e la ragion di Stato perché viva l'Italia, se c'è segreto, c'è futuro (ma, ogni tanto, anche un oscuro passato, sic!).

I segreti, però, bisogna saperli custodire, belli e brutti che siano. Anzi, soprattutto se brutti, evidentemente. Perché esiste un diritto alla verità, esiste un diritto al segreto, ma non esiste un diritto alla torbidità: in medio non stat virtus.
Il caso Almasri purtroppo è proprio lì nel mezzo, a causa della variopinta gestione politica di tutta questa vicenda. In ordine sparso. Il 28 gennaio la presidente del Consiglio liquida la questione come un'utile scusa per notificare una faziosa comunicazione d'iscrizione al registro degli indagati per ricattare una non ricattabile. Poi, i due ministri competenti, in un primo momento venuti meno al legittimo, se non dovuto, confronto democratico vista l'indagine aperta (loro sì ricattabili?), ritengono, per fortuna, di dare la loro versione. Riorganizzate le idee, il 5 febbraio si presentano in parlamento con idee diverse: Piantedosi parla di sicurezza dello Stato, Nordio di nullità in atti; prefetto e PM, d'altronde, lo si è per sempre. Infine, Donzelli parla di eccellente lavoro finalizzato a prevenire possibili ritorsioni, alla faccia della non ricattabilità.

Insomma, è bene guardarsi dall'affermare un diritto alla non trasparenza che troppo spesso rischia di sfociare in un diritto alla confusione e all'irresponsabilità politica, tanto più quando vengono in gioco valori di rilievo assoluto, tutelati dalla Costituzione. Non si può essere confusi e irresponsabili quando sono dovute spiegazioni al parlamento e all'opinione pubblica sulla liberazione di un perpetratore di crimini contro l'umanità e non si può essere e confusi e irresponsabili quando si tratta di giustificare il venire meno alle regole e alle procedure di un multilateralismo faticosamente costruito in materia di diritto penale internazionale. Nella ragion di Stato crediamo tutti, ma bisogna avere il coraggio di affermarla. La chiarezza nel rivendicare questa ragione è la regola modale di una politica alta e istituzionale, e quindi di governo; la torbidità nel mistificarla è la regola modale di una politica bassa e partitica. I segreti vanno custoditi. Se non si è grado, vanno giustificati, con il rischio che poi si vorrà scegliere un altro custode.
A pensarci bene, è vero che la realpolitik è una categoria che non invecchia mai, ma ogni tanto fa la muffa.

Victor Hartl
laureando in giurisprudenza all'Università di Bologna


Il caso Almasri che tiene le prime pagine dei giornali negli ultimi giorni e che è riuscito a compattare sia la maggioranza che l’opposizione è strettamente collegato all’attività dei nostri servizi di sicurezza. Un’attività che, per necessità e virtù, deve rimanere silenziosa, impenetrabile ed impercettibile. Benché l’avvento di Internet e dei social abbia reso le notizie su questo tipo di attività sempre più facilmente raggiungibili (le nostre barbefinte parlerebbero di OSINT, ovvero di open source intellgence). Libri, come quelli del professore Aldo Giannuli, del giornalista/informatore Renato Farina e non da ultimo, lo scritto dell’ex agente Marco Mancini permettono facilmente anche a chi mastica poco la materia, di capire come il mondo dell’intelligence gira. Non parliamo naturalmente di un universo fantastico come quello dipinto da Ian Fleming e del suo agente britannico a servizio della Regina. Ma di tutto quel sadico, infernale e provocante (per alcuni seducente) mondo fatto di informazioni, indiscrezioni, relazioni e studio di quello che accade nel globo. Facciamo un esempio pratico. Il lodo Moro (Aldo), ovvero il patto tra il nostro Governo e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ci ha concesso di vivere in pace senza alcun attentato (l’ultimo fu quello di Fiumicino del 1973) in cambio del libero passaggio di armi palestinesi nel nostro paese. Tale accordo, realizzato soprattutto grazie all’intercessione dei nostri servizi, venne a galla solamente molti anni dopo. Ancora, il premier Albanese Rama affermò nel 2022 di aver fatto “contrabbando” di vaccini anti-Covid con l’allora Ministro Di Maio grazie alla collaborazione dei rispettivi servizi di sicurezza. La lista è lunga e chi vuole può fare una semplice ricerca su internet (per favore su fonti accreditate e valide, alcune siti sono fagocitatori dei peggiori complotti). È facilmente comprensibile come questo giro di accordi e di chiacchierate avvenga (avviene) lontano dagli occhi dell’opinione pubblica. In una sorta di parapendio in cui si ondeggia sopra etica, morale e rispetto delle regole (es. Almasri) Le condizioni di tutto questo? Impossibile stabilirle. Quello che possiamo fare come cittadini è avere fiducia nei nostri apparati e del loro lavoro a favore dell’integrità e degli interessi del nostro paese.

Fabrizio Belfiori
master di II livello presso l’universita Pegaso


Uno Stato democratico di diritto non può agire senza dare spiegazioni. La trasparenza è un pilastro dell'ordine costituzionale, poiché ogni decisione pubblica deve trovare legittimazione nel diritto e nel consenso informato della cittadinanza. La sovranità dello Stato non si traduce in arbitrio. Ogni sua azione deve essere conforme alla Costituzione e alle leggi, sottoposta alla verifica di organi giudiziari, parlamentari e, in ultima istanza, dell’opinione pubblica. 

Qualunque atto amministrativo deve essere motivato e può essere sottoposto al sindacato giurisdizionale. Nemmeno gli atti politici ne vanno esenti: tradizionalmente considerati sottratti al controllo giurisdizionale, in quanto espressione della funzione di indirizzo politico supremo dello Stato, la giurisprudenza ha di recente sposato un’interpretazione restrittiva di tale categoria.

La decisione del Ministro della Giustizia di non eseguire il mandato d’arresto della CPI nei confronti di Al-Masri non può essere qualificata come un atto politico, nemmeno in senso tecnico. La Cassazione, con sentenza n. 18829/2019, ha chiarito che gli atti politici sono insindacabili solo quando attengono alla salvaguardia della struttura e del funzionamento dei pubblici poteri e quando mancano parametri giuridici che ne consentano la valutazione. In questo caso, invece, i riferimenti normativi sono chiari: l’Italia, in quanto Stato parte dello Statuto di Roma, ha obblighi di cooperazione con la CPI, inclusa l’esecuzione di mandati d’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. 

Non vi è, dunque, alcuna questione di «suprema ragion di Stato» che possa giustificare l'inazione. Non si tratta di una scelta che tutela l’integrità dello Stato o la sua sicurezza, né di una decisione su cui non esistono parametri giuridici applicabili. Solo dilettantismo politico travestito da realismo diplomatico. Un errore che, oltre a minare la credibilità dell’Italia sul piano internazionale, rischia di creare un precedente pericoloso.

Marco Bellandi Giuffrida
Università degli Studi di Trento

 
In merito al caso Almasri la mia risposta è che no, uno Stato non dovrebbe avere il diritto di non essere trasparente, se tale Stato vuole definirsi democratico come l’Italia è per Costituzione. La trasparenza è uno dei principi cardine della giustizia: non rispettare questo criterio significa non solo tradire la fiducia dei cittadini e alimentare la diffidenza nei confronti delle istituzioni, ma implica l’idea di potersi prendere gioco di loro, basandosi sulla loro presunta incapacità di comprendere appieno una situazione e, di fatto, ingannandoli, escludendoli dal dibattito e obbligandoli a recepire decisioni ingiustificate. Appellarsi alla ragione di Stato non legittima una decisione così drastica come quella di scarcerare un torturatore, come dimostrato dal fatto che c’è una grande incertezza e controversia riguardo ai veri motivi che hanno portato alla sua scarcerazione. Il governo, per ora, non è stato chiaro ed ha fornito spiegazioni parziali, poco trasparenti appunto, e quindi insufficienti da parte di chi dovrebbe rappresentare tutti i cittadini. Nascondersi dietro la “sicurezza nazionale” è un’affermazione nostalgica e poco convincente, a cui sarebbe preferibile un governo che agisce veramente nell’interesse di tutti, e non a difesa dei propri accordi con uno Stato autoritario come la Libia.

Giulia Giusti
università di Pisa

 
La querelle Almasri che in questi giorni infiamma l'opinione pubblica e tiene banco fra i parlamentari delle fazioni più disparate rivela uno spaccato molto interessante.Sul versante della trasparenza è chiaro che ci siano dei casi in cui la sicurezza nazionale la fa da padrona assoluta,e che si sacrifichi il diritto alla trasparenza e quindi l'accesso agli atti assolvendo a tale obbligo. Il caso del libico sembra il solito scaricabarile all'italiana,in cui Nordio attribuisce la colpa alla CPI e ad alcuni magistrati italiani nelle loro scelte,mentre Piantedosi sbandiera il veto della sicurezza nazionale a fronte di una situazione che necessitava in Aula del solo e unico intervento di una persona:Giorgia Meloni. Sì perché al di là delle kermesse internazionali,la premier italiana non si è esposta più di tanto. La sua assenza è stata piuttosto vessatoria e irrispettosa delle istituzioni che lei,in primis, è tenuta a rispettare. Al di là del corto circuito di cui si parla tra CPI, Ministero della Giustizia e Ministero degli Interni,resta il fatto che la questione si sarebbe potuta gestire molto meglio,conformandosi alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, così come prevede l'articolo 10 della nostra Costituzione e assicurando alla giustizia internazionale Almasri. D'altro canto la magistratura si è subito attivata nei confronti di Meloni, Nordio e Piantedosi, che risultano indagati per favoreggiamento e peculato dalla procura di Roma. L'altra faccia della medaglia è proprio questa situazione che mostra più che la fisiologia,direi la patologia del sistema italiano ogni qualvolta un governo,sia esso di destra,sinistra o qualsivoglia area ideologica di riferimento provi a varare una riforma della giustizia,suscitando la resistenza e,per certi versi, l'insofferenza dell'ANM che comporta quasi come conseguenza diretta,l'attivazione delle procure, specie atto di resistenza.Esempi illustri di tale patologia si sono verificati nei governi Berlusconi,ma anche di Prodi e Renzi, dove uno spiccato attivismo degli organi di vertice della magistratura ha bloccato, de facto,una possibile riforma del sistema giudiziario. Va ribadita,come affermava Montesquieu(tanto caro al nostro guardasigilli)la "separazione dei poteri" e quindi l'indipendenza e l'autonomia del potere legislativo,in questo caso in tema di discussione e partecipazione in Parlamento,ma anche e soprattutto dell'esecutivo e di quello giudiziario ribadendo che il Governo e il Parlamento fanno le leggi,mentre la magistratura ha il compito di valutarle e applicarle,nel rispetto e nella coerenza del quadro di riferimento ben delineato dalla nostra Carta Costituzionale.

Francesco Gallucci
studente del Dipartimento di Scienze Politiche della Federico II di Napoli