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Essere orgogliosi dell'Occidente

Abbiamo chiesto agli studenti universitari di rispondere a una domanda semplice, ma importante: in cosa l'occidente dovrebbe essere più orgoglioso di se stesso

Abbiamo chiesto agli studenti universitari di rispondere a una domanda semplice, ma importante: in cosa l'occidente dovrebbe essere più orgoglioso di se stesso. Se volete scrivere anche voi, qui c'è la mail: [email protected]. Questo è uno spazio dedicato agli studenti universitari. Uno spazio di dialogo, di confronto, di dibattito, di visioni sul futuro. I migliori contributi saranno pubblicati nella newsletter del direttore Claudio Cerasa, La Situa. Vi potete iscrivere qui
     


  

L’Occidente ha molte ragioni per riscoprirsi orgoglioso, a partire dai valori fondanti delle sue democrazie, che fortunatamente trascendono i confini euro-americani e caratterizzano anche altre nazioni fondamentali, come il Giappone. Tuttavia, per ritrovare davvero il proprio orgoglio, l’Occidente deve anzitutto riconnettersi con la realtà che lo circonda, riscoprendosi non solo forte, ma anche capace di incutere timore. Deve tornare a essere percepito come una potenza temibile da attori come la Russia e la Cina, una caratteristica intrinseca agli Stati Uniti ma assai meno presente nei paesi europei, da troppo tempo concentrati esclusivamente sul bilancio economico e sulla difesa di un benessere che, presto, potrebbe non essere più sostenibile. 
Il riarmo è una necessità, ma non l’unica. L’Europa deve investire con decisione nei settori strategici del futuro, come le nuove tecnologie digitali, abbandonando un approccio meramente regolatorio per abbracciare una visione più ambiziosa ed efficientista, pena la dipendenza perpetua dalle altre superpotenze. 
Questa riflessione porta a una consapevolezza fondamentale: l’Occidente non è uno solo. È un concetto astratto che per decenni ha permesso ai paesi europei di delegare agli Stati Uniti responsabilità cruciali, a cominciare dalla sicurezza. Oggi, però, è giunto il momento di riscoprire il nostro Occidente, quello europeo. Per farlo, serve un cambiamento radicale che parta dai più giovani, spesso giovani solo all’anagrafe ma già vecchi nello spirito. Bisogna convincerli della necessità di tornare protagonisti della storia, che – a dispetto di ogni illusione – non è mai finita.
Le trasformazioni culturali di questa portata necessitano di shock. Negli ultimi cinque anni abbiamo affrontato una pandemia globale, assistito all’esplosione di una guerra nel cuore del continente europeo e in Medio Oriente, e visto la rielezione di un presidente americano, Donald Trump, sintomo di un impero nervoso e sempre più stanco di occuparsi di noi come fossimo bambini incapaci di difendersi da soli. 
Basteranno queste piaghe a risvegliare gli europei?

Raffaele Varriale
Studente di Governance e Politiche dell'Innovazione Digitale all'Università di Bologna 

 

   

Accostare la parola “Occidente” a “piano di riarmo” fa sembrare il futuro una ripetizione del passato, come se la tecnologia servisse solo ai carri armati e le parole solo alla propaganda. Se c’è ancora bisogno di parlare del Manifesto di Ventotene, di cui tanti ignorano l’esistenza, vuol dire che l’Occidente deve andare a scavare nella sua storia per capire dove ha sbagliato.
Una terra piena di popoli diversi ma così simili, che hanno esportato la filosofia, la letteratura e l’arte nel mondo, tutto il “bello” che si può ammirare o anche solo leggere viene da qui. Si dice che la storia insegni, e allora forse quello che dovremmo fare è proprio andare a ricercare nella storia, cercare di studiarla ancora e ancora, capire, comprendere e soprattutto ricordare. L’Occidente è questo: la culla della cultura in cui l’istruzione è sempre stata al primo posto, un luogo in cui parlare una lingua diversa o appartenere a un’altra cultura non è mai stato un problema.
Italia, Francia, Germania… Paesi che hanno accolto e sono stati accolti a loro volta, dove i valori dell’accoglienza e della solidarietà verso gli altri sono alla base delle loro costituzioni. Stati in cui la libertà è stata guadagnata con fatica, ma anche con tanta voglia di ricostruzione e di rinascita, cercando di lasciarsi alle spalle il passato e imparando da esso.
La rilettura in Aula del Manifesto di Ventotene è stata una pura provocazione, un tentativo deliberato di decontestualizzazione, perché sono stati gli uomini e le donne che durante il Novecento si sono ribellate ai nazionalisti, alle potenze autarchiche che hanno costruito l’Europa. Loro che hanno desiderato e bramato la democrazia sopra ogni altra cosa. Questo è ciò che l’Occidente dovrebbe ricordare e di cui dovrebbe essere orgoglioso, perché la nostra eredità storica è un miscuglio perfetto di inventiva, lavoro e amore per la propria terra.

Alessia Lapietra
Università Bocconi corso di Laurea in Giurisprudenza. Membro del giornale universitario Tra i Leoni

   

   

La divisione tra Oriente ed Occidente rappresenta il lascito geografico di un divisionismo più ampiamente diffuso e declinato nel bipolarismo culturale appannaggio di due sfere d’influenza antitetiche. Eppure il termine diversità non dovrebbe sovrapporsi a quello di privazione, ma deve voler rappresentare un ventaglio di vedute che non siano mutualmente esclusive ma anzi caparbiamente sottese a un ombrello di inclusività e pari opportunità. In un mondo in cui la produzione di idee fluisce ininterrotta emulando la costanza della rotazione Terrestre, i valori culturali sembrano affermarsi in qualità di forza controcorrente e quasi inversamente proporzionale al naturale sviluppo dell’essere umano, rendendo una divisione culturale presumibilmente innocua la vera e propria linea di demarcazione tra un orientalismo d’ispirazione dispotica e un occidentalismo paladino delle opportunità prive di restrizioni. Iscritto all’interno di un simile quadro divisionista, l’Occidente deve auto-riconoscersi i valori che lo rendono il migliore dei mondi possibili: come ricorda l’attivista somala Ayaan Hirsi Ali, la società occidentale interiorizza il valore dell’eucarestia cristiana ergendolo a dogma di benevolenza applicata alle relazioni umane, che richiamano al rispetto e al dialogo proattivo con l’altro. La realtà occidentale è paradigmatica in quanto storicamente avversa alla diffusione di fondamentalismi in nome di una libertà che ripudia il conflitto, inneggiando all’affermazione del proprio io all’interno di un mare di individualismi differenti. In questi termini, l’uomo si appropria indebitamente di quello stesso anelito evoluzionista che ne motiva l’esistenza nel momento in cui decide di traslare il proprio status di specie darwinianamente sopra-elevata sulle proprie decisioni di vita, convincendosi di poter plasmare la realtà a proprio piacimento; fattualmente, l’appartenenza al genere umano non conferisce in alcun modo il diritto a tramutare la propria intenzione in azione senza considerare le esternalità imposte sull’altro. Essere umano implica l’assimilazione di nozioni quali la tolleranza e il ripudio dell’autoritarismo, all’insegna di una libertà concretamente praticata di cui l’Occidente deve fieramente definirsi portavoce al fine di esportarla in qualità di regola socioculturale universalmente riconosciuta.

Alice Di Terlizzi
Bachelor in International Politics and Government, Università Bocconi

    

   

In ambito geopolitico il significato di “Occidente” indica il potere economico dei territori, in cui riflette la ricchezza della città e del paesaggio, quantificato sulla base del progresso bioeconomico e del valore patrimoniale del territorio. L’innovazione tecnologica, consente la programmazione di piani socioeconomici europei, i quali utilizzano modelli analitici tramite l’individuazione della risorsa comune, tutelando il capitale ambientale. A seguito delle repentine crisi energetiche, la transizione ecologica determina impatti ed effetti ambientali, provocati dalle pressioni antropiche e la limitazione del modello di sviluppo economico di tipo lineare1. Fredrick Soddy2, principale pensatore dell’andamento bioeconomico determinò, nel periodo della grande industrializzazione, produzione e consumo di massa del “modello fordista”, la transizione dell’economia industriale e rurale, paragonandola all’evoluzione dei principi della termodinamica e dell’elevata ricchezza della società industriale. Negli ultimi decenni del Novecento Nicholas Georgescu-Roegen e Herman Edward Daly, approfondirono le criticità territoriali del settore produttivo sull’ambiente, attraverso l’analisi economica del settore biologico, collocando la rilevanza del capitale ecologico, dell’economia ambientale e il relativo potenziale, fondato sull’approvvigionamento delle risorse di pubblico interesse. La correlazione consiste di integrare nel sistema produttivo i beni comuni ambientali con le materie prime naturali, disponibili in ambito territoriale e disporle nel processo di industrializzazione. Difatti, l’aspetto rivoluzionario del modello economico di Roegen-Daly, tende a contrapporsi con “il modello neoclassico” (Lepore, Palermo, Pomella, 2021), del sistema vivente e delle risorse comuni, mediante l’analisi dei vari stadi di entropia (logica del disordine o teoria del caos3) e il rigore del processo evolutivo del modello industriale di tipo lineare (logica dell’ordine o teoria della funzione di produzione lineare). Il rapporto materia-energia è direttamente proporzionale alla quantità di stock energetico mercificato dal sistema industriale e dal fenomeno socioculturale della gentrificazione, con conseguenze di depauperaménto delle risorse ambientali, (bassa entropia – alto impatto) disastrose per l’inquinamento degli ecosistemi terrestri.

 

Maria Antonietta Onorato
(neolaureata in Pianificazione e progettazione territoriale, urbanistica e ambientale, socio Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) Giovani, sezione Toscana)