The Americans
La terza stagione di un cult. Quelli per cui “tutto è permesso in amore e nella Guerra fredda”
Chi non ha mai cercato un tesoro non è mai stato un bambino”: così rispose Robert L. Stevenson al suo recensore Henry James, poco convinto che un romanzo con un’isola e un baule sepolto potesse avere successo (dopo la prima scaramuccia divennero amici di penna fino alla morte dello scozzese). “Chi non ha mai sognato di condurre una doppia vita non è mai stato un adulto”: vale come corollario alla legge Stevenson-James, e come spiegazione dell’attrattiva esercitata da “The Americans”, la serie di Joe Weisberg sulle spie nell’America degli anni 80, iniziata nel 2013 e ormai alla terza stagione.
Sappiamo, dai romanzi di Graham Greene e Eric Ambler, che il mestiere ha poco a che fare con le macchine lussuose, le belle donne, i Martini di 007. Più spesso si tratta di venditori di aspirapolvere che per raggranellare qualche soldo si fanno arruolare dai servizi segreti britannici, e in mancanza di materiale spediscono a Londra il disegno dell’elettrodomestico. E sappiamo, per aver letto “La pace insopportabile” di John le Carré, che non solo le cinque spie di Cambridge ma anche un colonnello dell’esercito svizzero fornivano informazioni ai sovietici.
La casetta alla periferia di Washington, con il garage per la macchina e lo steccato a cintare il giardino, sembra più adatta a una casalinga disperata che a una coppia di spie con un figlio maschio e una figlia femmina. Vivono lì Elizabeth e Philip Jennings, alias Nadezhda e Mischa. Dopo un duro addestramento, sono stati mandati negli Usa come finti coniugi, giusto i contatti necessari per mettere al mondo i rampolli. Con il passare del tempo, lui mostra qualche cedimento verso lo stile di vita americano (“qui l’elettricità funziona sempre” fu il primo commento di 15 anni prima, appena sbarcati), quasi vorrebbe disertare. Lei rimane fedelissima agli ideali sovietici. Ogni tanto escono per una missione, ammazzano qualche nemico da nascondere nel bagagliaio, chiudono la serranda del garage, lei prepara la cena e apparecchia la tavola per i figli americanissimi che nulla sospettano (ci sarà tempo il giorno dopo per sbarazzarsi del cadavere).
“Tutto è permesso in amore e nella Guerra fredda”: questa la frase che lanciò la serie, aperta da titoli di testa ispirati al più puro (e pompiere) realismo socialista: parate, statue di giovanotti e giovanotte che corrono verso il sole dell’avvenire, manifesti con falce e martello, razzi per la conquista dello spazio. Nella villetta dirimpetto abita il nemico numero 1, agente dell’Fbi in forza alla divisione che dovrebbe smascherare proprio le spie sovietiche in Usa. Nella terza stagione, gli Jennings devono procurare i nomi degli agenti della Cia in Afghanistan. Un foglietto con i nomi viene perso, e come sempre si apre un delicatissimo fronte interno. I sovietici ora cercano spie di seconda generazione, e vorrebbero arruolare Paige, la figlia della coppia. Ma anche la madra fanatica ha un certo imbarazzo ad aprire l’armadio con parrucche, i documenti falsi, le armi e pronunciare la fatidica frase: “Figlia mia, tutto questo un giorno sarà tuo”.
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