Risorti o ritornati

Mariarosa Mancuso

“Les Revenants” è la resurrezione della carne fatta serie tv, ma non pensate agli zombie-movie

Mi sono sentito come Pete Best, batterista per due anni con i Beatles. Fu scaricato alla vigilia del primo contratto discografico e deve aver passato il resto della vita, immagino, a mangiarsi le mani”. Siamo abituati alle confessioni di Emmanuel Carrère, prodigo nei suoi libri di dettagli autobiografici (anche troppo: nell’estate del 2004 spedì alla fidanzata una lettera scollacciata, con copia ai 600.000 lettori del Monde, finì malissimo). Nell’ultimo – “Il regno”, da Adelphi – all’improvviso ricorda di essere stato cristiano, in una vita precedente durata dal 1990 al 1993. All’improvviso: fino alla pagina prima si era domandato con stupore “ma in cosa credono i credenti?”, aggiungendo: “Ogni frase del Credo è un insulto al buon senso”.

 

Il gemellaggio in spirito con Pete Best si deve all’arrabbiatura presa quando Emmanuel Carrère – assieme a Fabrice Gobert che aveva avuto l’idea e della serie sarà il regista – scriveva i primi episodi di “Les Revenants” (prodotta da Canal+, è andata in onda su Sky Atlantic). Stufo di “essere messo sotto esame da un manipolo di fighetti con la barba di tre giorni”, contro i consigli della moglie e del suo agente dopo quattro mesi lo scrittore abbandonò l’incarico. In tempo per non godersi gli applausi di quasi un milione e mezzo di francesi, e i premi internazionali, tra cui l’Emmy Award per la migliore serie tv del mondo o il British Academy (e sappiamo benissimo quanto diffidenti siano, in materia di fiction, gli anglosassoni verso i mangiarane).

 

Ispirata al film diretto nel 2004 da Robin Campillo, “Les Revenants” è la resurrezione della carne fatta serie tv. In un paesino di montagna che ricorda Twin Peaks (contribuisce la colonna sonora del gruppo scozzese Mogwai), i morti ritornano in vita. Non tutti, sennò sarebbe il solito zombie-movie. Neppure nelle condizioni in cui la letteratura e il cinema hanno finora immaginato il loro ritorno: sporchi di terra, lenti nell’andatura, un po’ rintronati (così l’irlandese Colm Toíbín, in “Il testamento di Maria”, racconta la resurrezione di Lazzaro, e così si ripresenta il gatto di casa in uno dei più spaventosi romanzi di Stephen King, “Pet Sematary”).

 

Annuncia i “ritornanti” una farfalla infilzata con uno spillone: sbatte le ali, e ha la forza di spaccare il vetro della bacheca. Sono vivi, hanno una gran fame, non immaginano di essere defunti, chi dieci chi quattro anni prima. Ogni episodio – la prima stagione ne conta otto – è costruita attorno a uno di loro: la ragazzina morta sul pullman della gita scolastica, lo sposo morto alla vigilia delle nozze.

 

Una struttura molto praticata dalle recenti serie tv. “The Affair” racconta un adulterio a voci alterne, mezz’ora per lui che vede lei come una strega seduttrice, mezz’ora per lei che vede lui come uno sciupafemmine: non ci fosse di mezzo un omicidio sarebbe ordinaria amministrazione. “The Slap” racconta i partecipanti a un barbecue dove un adulto ha schiaffeggiato un bambino insopportabile, ponendosi fuori dall’umano consesso. Ma solo i pazzi e i sedicenti artisti cercano di cambiare quel che funziona.
La resurrezione della carne dopo il Giudizio Universale pone qualche problema al Carrère seconda maniera, capace di dimenticare un matrimonio in chiesa e venti quaderni di commento ai Vangeli. I risorti prima del Giudizio Universale mettono alla prova lo sceneggiatore. La mamma che ha conservato intatta la cameretta toglie il ritratto e le candele, mentre la figlia tornata dall’aldilà sta facendosi una doccia. “Ho tanto pregato perché tornasse”, dice in un sussurro. Il padre, separato dopo l’incidente e richiamato in servizio (ci sarebbe un nuovo compagno ma per la ragazzina è uno sconosciuto), ribatte che no, lui per la resurrezione della figlia non ha mai pregato, non basta però per lavarsene le mani.

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