Felicità (a momenti)

Mariarosa Mancuso
“HAPPYish”, ovvero le illusioni degli ottimisti, tra reincarnazioni e pacchi di Amazon parlanti

    Al diavolo Thomas Jefferson. Mica una gran pensata mettere nella Dichiarazione di Indipendenza la ricerca della felicità. Diritto inalienabile, ma anche un bel peso, quando uno comincia a chiedersi se l’antidepressivo possa interferire con il Viagra. Quando uno fa il pubblicitario a New York (oggi, non negli anni lussuosi di “Mad Men”), due svedesi giovanissimi e indistinguibili tra loro acquisiscono la ditta, l’ambiente di lavoro scivola pericolosamente verso dinamiche da “Il signore delle mosche”. Del resto Thom Payne – nome che evoca Thomas Paine, altro padre fondatore della nazione – l’aveva ammesso, prima di cominciare il suo cahier de doléances: “Lavoro per Satana”.

     

    “HAPPYish” – come “feliciastro” – è il titolo della serie, con Steve Coogan protagonista (bella occasione per lavar via la melassa rimasta addosso dopo “Philomena” di Stephen Frears). Seconda scelta: la prima era Philip Seymour Hoffman, morto lo scorso febbraio, di droga e forse anche di infelicità. Rimpiazzarlo sembrava un sacrilegio, solo un attore britannico poteva provarci. Il primo episodio (di dieci) è andato in onda in America lo scorso 26 aprile. La presente vale come formale richiesta per vederla anche alla periferia dell’impero.

     

    Inutile illudersi, ognuno ha la sua soglia di felicità, bassa o alta che sia: una volta raggiunta non c’è nulla da fare. Questa la teoria, spiegata nel primo episodio, che con una gag ricorrente alla voce “sceneggiatori” mette Aloysius Alzheimer. Il medico tedesco che per primo raccontò un caso di demenza senile (la paziente, cinquantenne, arrivò in clinica nel 1901) si affianca allo sceneggiatore vero, Shalom Auslander. E finalmente capiamo perché le battute scorticanti in “HAPPYish” hanno qualcosa di familiare.

     

    Nato a Monsey, NY (18 mila abitanti e oltre cento sinagoghe), Shalom Auslander ha scritto “Il lamento del prepuzio” e “Prove per un incendio” (Guanda). L’incendio sta solo nel titolo italiano. Gli editori sono convinti che il lettore fugga per un nonnulla, figuriamoci davanti alla traduzione letterale che suonava “Speranza: una tragedia”. Auslander è infatti fermamente convinto che solo i pessimisti non abbiano combinato guai (dagli ottimisti e dalla gente con ideali, meglio stare lontani). Per questo Salomon Kugel, protagonista del romanzo, va a vivere in provincia, “là dove la storia non è mai passata”. E si ritrova nella soffitta di casa una vecchietta che sostiene di essere Anna Frank, con ambizioni da romanziera (“ho il mio pubblico”, dice all’editore, che invece le consiglia di lasciare le cose come stanno).

     

    “Chi vi salverà dal prossimo Olocausto?” è la domanda che ricorre anche in “HAPPYish”. Pronunciata da un pacco appena consegnato da Amazon: la freccia che nel logo sta sotto la “a” si anima e parla con voce petulante. Appartiene alla suocera del pubblicitario, che spedisce un regalo al nipotino facendo infuriare la propria figlia. Il pacco viene riportato all’ufficio postale (non si potrebbe, ma anche l’impiegato ha una mamma ebrea) mentre mediatiamo sull’atroce dilemma: “Come possiamo difenderci dai nostri genitori senza far male ai figli?”. Il pacco parlante, in un “a parte” rivolto allo spettatore, non si perde la battuta: “Visto come maltratta la sua mamma?”. Intanto gli svedesi hanno ribattezzato le sale riunioni con i nomi degli scrittori, e Thom Payne cerca di impressionare almeno la segretaria, che lo convoca in sala Miller. Arthur o Henry? chiede con un sorrisino. “Frank”, risponde gelida la fanciulla. Intendendo il fumettista di “300” e di “Sin City”.