Superotto e crimine
0A furia di accumulare video e foto nello smartphone, ci si chiede che fine faranno i documentari costruiti su qualche rara immagine ritrovata nei cassetti o qualche filmino in superotto. Le scrutavano con la macchina da presa, facevano i circoletti rossi attorno al protagonista, riproponevano le azioni al rallentatore.
Era l’età della penuria, qualsiasi reperto era prezioso. Nell’età dell’abbondanza, due sono le possibilità. Il materiale sarà talmente smisurato che nessun regista avrà il tempo e la voglia di metterci le mani (ammesso che immagini e video siano leggibili, le vecchie foto e la pellicola restano, le nuove tecnologie sono spesso incompatibili tra loro). Oppure avremmo documentari noiosissimi, nessun regista avrà cuore di buttare niente. Succede in “Amy”, diretto da Asif Kapadia e visto a Cannes: va bene “happy birthday” in versione casalinga, va bene il quadernetto con la grafia di Amy Winehouse e i cuoricini al posto dei puntini sulle “i”. Ma si capisce che il regista ha la sua sindrome di Stoccolma: prigioniero del materiale, non riesce a scartare niente. Tenete conto che Amy era nata nel 1983: pensando ai millennials avrete la misura del disastro.
Il filmini in superotto occupavano gran parte del documentario di Andrew Jarecki “Una storia americana - Capturing the Friedmans”. Uno scandalo anni 80, padre e figlio arrestati per violenza sessuale su minori. I Friedman erano appassionati di filmini in superotto, quindi registrarono, oltre ai compleanni, anche “la sera prima che papà andò in prigione” e il relativo consiglio di famiglia. L’idea era che il papà Arnold si assumesse le colpe per scagionare il figlio Jesse. Fu uno dei film meglio recensiti del 2003, e condusse alla revisione del processo (Arnold Friedman si era suicidato in prigione nel 1995; il figlio Jesse, a quasi 50 anni, sta ancora gira per tribunali con l’intenzione di restituire l’onore alla famiglia).
Altri filmini in superotto – nella miniserie “The Jinx”, sei puntate Hbo in onda dallo scorso febbraio – raccontano il povero ragazzo ricco di Robert Durst. Sua madre morì cadendo dal tetto di casa. Sotto gli occhi del piccolo Robert, che allora aveva sei anni (sembra sia stato il padre a chiamarlo, racconta il ragazzino ormai settantenne). Non un bel momento, in una relazione tra genitore e figlio. E solo il primo degli screzi: il padre immobiliarista decise di affidare la gestione del patrimonio familiare (650 milioni di dollari) al fratello Douglas, che subito arruolò una guardia del corpo, convinto che Robert volesse ucciderlo.
Interrogato da Andrew Jarecki, la telecamera puntata addosso, Robert Dunst dà al fratello della femminuccia. Ma questa non è una storia familiare, che finisce sul divano dello psicoanalista. “The Jinx” – come “maledizione” o “iattura”- è un true crime con (almeno) due cadaveri. E il regista fa la sua parte. L’assassino aveva ancora addosso il microfono, e il microfono era aperto, quando mormorò: “Li ho uccisi tutti, ovvio”. La frase era nell’ultima puntata, il 15 marzo. Ma già prima Andrew Jarecki aveva consegnato il nastro alle autorità, che dopo un supplemento di indagine arrestarono Robert Dunst il giorno prima del gran finale.
Era il 14 marzo 2014, fino a quel momento lo sbilanciamento massimo del presunto colpevole era stato: “Nessuno dice mai tutta la verità”. Nel 2000 minacciarono di riaprire le indagini sulla scomparsa della moglie, il vedovo partì per Galveston, Texas: indossò una parrucca, si finse una sordomuta, affittò una stanza da 300 dollari. Finché il suo vicino di casa Morris Black fu ritrovato a pezzi, nella spazzatura. Durst venne arrestato, pagò immediatamente la cauzione da 300 mila dollari e sparì. Lo riacchiapparono mentre rubava un sandwich al pollo. (in macchina ne aveva 38 mila). Qualcuno ricordò la morte di Susan Berman, portavoce di Durst dopo la scomparsa della consorte. Nel 2003 fu processato e assolto.
Tre delitti quasi perfetti, risolti grazie a una miniserie tv (per la moglie e l’amica, nessuno era riuscito a trovare le prove, il vicino fu considerato legittima difesa). O forse, visto che fu Robert Durst a offrirsi per l’intervista da cui è nata la miniserie, non fu distrazione per scarsa dimestichezza con il microfono, ma voglia di stupire, speculando sul fatto che non si può essere processati due volte per lo stesso delitto. Robert Durst, come noi, deve aver visto troppe volte “Testimone d’accusa” di Billy Wilder con Marlene Dietrich. Il fatto che l’abbiano arrestato, insegna che non bisogna fidarsi di quel impariamo al cinema.


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