
Ancora Fargo
Da dove vengono le storie non si sa. Le possiamo soltanto studiare, occupazione certo più interessante dei dibattiti attorno allo “storytelling”: da una parte gli apocalittici che lo considerano l’origine di tutti i mali, soprattutto in politica; dall’altra gli integrati che ne sostengono l’universale indispensabilità, estesa alla ricetta della pasta e ceci. Oppure le possiamo smontare per capire come sono fatte. Magari c’è una manciata di trame a cui tutte le altre sarebbero riconducibili (sul numero esatto non esiste certezza, ogni smontatore di storie ha il suo). Magari – come sosteneva Vladimir Propp a proposito delle fiabe – esistono personaggi e situazioni che come i mattoncini Lego si combinano per formare tutte le altre.
Di sicuro, le storie non si esauriscono né si consumano, a furia di raccontarle. E in materia l’originalità non è sempre una virtù (lo pensano solo gli inguaribili romantici, intesi come seguaci del movimento letterario: peccato che poi, alla prova del manoscritto, tirino fuori i più triti tormenti adolescenziali). Prendiamo “Fargo”, la serie tv ispirata alla pellicola dei fratelli Joel e Ethan Coen, anno 1996. Pareva un’impresa impossibile, come ricavare film da certi romanzi inadattabili (tra gli ultimi pervenuti, lo scoppiatissimo “Vizio di forma”, diretto da Paul Thomas Anderson d’après Thomas Pynchon). A dispetto dei profeti di sventura è riuscita benissimo – in Italia l’abbiamo vista su Sky Atlantic – e il prossimo settembre partirà negli Stati Uniti la seconda stagione. Con un cast tutto nuovo, forte della biondina Kirsten Dunst, e una storia che torna indietro alla fine degli anni Settanta, campagna elettorale di Ronald Reagan.
Non sarà necessario aver visto la prima stagione – ambientata in Minnesota, anno 2006, i titoli di testa dicono: “da una storia vera”, ma non bisogna mai prendere i Coen troppo sul serio – per godersi la nuova. Portando rispetto agli spettatori che preferiscono le sveltine (dieci episodi con un “The End” alla fine lo sono, rispetto agli 86 episodi dei “Soprano” che tornano in onda sempre su Sky Atlantic dal 16 luglio), l’ideatore della serie Noah Hawley ha scelto la discontinuità. Un po’ perché non era tanto sicuro di arrivare in fondo (i fratelli Coen hanno dato la loro approvazione quando il copione era già scritto, impressionati dalla sua bravura) e un po’ perché – con l’accumulo di omicidi e sparizioni – i personaggi si esauriscono alla svelta.
Si applica bene a “Fargo” quel che il critico Jan Kott disse del “Tito Andronico” di William Shakespeare: “Se durasse un atto in più, comincerebbero a morire gli spettatori delle prime file” (i cinque atti della tragedia prevedono mani mozzate, una lingua tagliata, un pasticccio di carne umana, sgozzamenti e ammazzatine con ritmi e crudeltà da videogioco). Prima scena, una macchina che va fuori strada sulla neve, nel bagagliaio un tizio piuttosto malconcio. Stacco sull’assicuratore Martin Freeman, vessato dalla moglie (“ho sposato il fratello sbagliato”) e dal compagno di scuola bullo che lo picchia davanti ai propri figli. Moglie e compagno di scuola non arrivano vivi alla fine del primo episodio. Si salva invece il poliziotto che invece di insistere per i documenti davanti a un sinistro Billy Bob Thornton (era lui a guidar l’auto sul ghiaccio) se ne va senza la tentazione di fare l’eroe.
“Una volta sulle mappe scrivevano hic sunt leones”, spiega Billy Bob Thornton, che quando proprio è necessario si fa chiamare Duluth. Ora l’avvertimento non usa più. Ma non vuol dire che il mondo in generale – e le cittadine del Minnesota in particolare – siano posti tranquilli come suggerisce il quadretto a punto croce con la scritta “Fargo”. Indaga la poliziotta Molly, che non è incinta come Frances McDormand nel film dei fratelli Coen, e sembra molto più sveglia del collega che “pulisce la pistola con il bagnoschiuma” (così diceva il capo). Senso di minaccia e umorismo nerissimo: la bravura sta nel rifarli, senza scopiazzare il film.


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