Cocaina vittoriana

Mariarosa Mancuso

“The Knick” è abilmente costruito come certi finti romanzi dell’epoca, ma senza censure

 

    Un po’ di “Downton Abbey”, un po’ di “E. R. – Medici in prima linea”. Ecco “The Knick”, la serie diretta da Steven Soderbergh. Uno che sa far tutto – spesso compare come direttore della fotografia, con lo pseudonimo di Peter Andrews, o come montatore dei suoi film, prendendo a prestito il nome della madre, Mary Ann Bernard – e che vuol provar di tutto. Cominciò con il minimalismo di “Sesso, bugie e videotape”, Palma d’oro a Cannes nel 1989. A Cannes è ritornato con il barocchissimo e kitschissimo “Dietro i candelabri”: pianoforte e amori di Liberace. In mezzo: Che Guevara, una pornostar da duemila dollari l’ora, gli spogliarellisti di “Magic Mike”. Mancava la serie, ora che i registi di cinema si mettono ordinatamente in fila per girarne una. Come in “Dowtnon Abbey” – ambientato nel 1912, quando l’inaffondabile Titanic naufragò – in “The Knick” si chiacchiera di una diavoleria moderna chiamata elettricità. “L’elettricità in cucina?”, chiede una servetta che ha appena acceso i camini nelle stanze dei padroni. “E a cosa servirà mai?”. “The Knick” sta per Knickerbocker Hospital, siamo nel 1900, l’elettrico entra in sala operatoria. E subito ne viene cacciato: l’apparecchio per cauterizzare le ferite manda a fuoco un paziente; l’infermiera pensa che gli incendi vadano spenti con l’acqua e muore fulminata. In corsia, il ronzio delle nuove lampade elettriche interferisce con lo stetoscopio.

     

    Non è tutta colpa delle nuove tecnologie. Un po’ conta il fatto che l’amministratore dell’ospedale storna i soldi dei finanziatori a proprio vantaggio. Neanche i chirurghi son stinchi di santo: John Thackery – Clive Owen, in bombetta e baffi e panciotto – si fa iniezioni di cocaina tra le dita dei piedi, e passa il tempo libero nelle fumerie d’oppio a Chinatown. Il suo maestro, anche lui tossicodipendente, si è suicidato dopo aver visto morire l’ennesimo paziente (in quegli anni si mettevano a punto le tecniche operatorie moderne, parto cesareo compreso: un po’ di pratica sui cadaveri, procurati a caro prezzo da gente poco raccomandabile, e via con le cavie umane). Ha un assistente nero, scelto dai lungimiranti finanziatori per la sua bravura, e non c’è verso che vadano d’accordo. “The Knick” è abilmente costruito come certi finti romanzi vittoriani. “Il petalo cremisi e il bianco” di Michel Faber, o “Jack Maggs” di Peter Carey, raccontano benissimo l’epoca, senza censure e con il vantaggio del senno di poi.

     

    Sappiamo che la chirurgia alla fine ha trionfato, che un nero è diventato presidente degli Stati Uniti, e che la cocaina – anche Sigmund Freud la usava per digerire e tirarsi su di morale – non è leggera come l’aspirina. C’erano già lo stress da superlavoro, e il rehab per i chirurghi tossicodipendenti (la cura era dubbia, a base di eroina). E c’era la Paziente Zero: una cuoca irlandese, ribattezzata “Typhoid Mary”, che attaccò la febbre tifoide a una cinquantina di persone, prima che la mettessero in quarantena.