Morti freschissimi
Le prime 62 puntate – distribuite su 5 stagioni – cominciavano con una morte. L’ultima puntata cominciò con una nascita, lasciando immaginare che ci fosse una gran sorpresa in serbo per il finale di “Six Feet Under”, C’era, in effetti: il 21 agosto di dieci anni fa, un montaggio di sette minuti circa mostrava il passaggio a miglior vita (dicono, ma noi non ci abbiamo mai creduto) di tutti i personaggi. I componenti della famiglia Fisher – eccetto il figlio Nate, che era morto un paio di episodi prima – e i loro cari: tutti, chi più o chi meno, gravitavano attorno all’impresa di pompe funebri con il loro nome.
Erano morti vere, per come può essere vera una morte in una serie tv, e drammaticamente ben calibrate. Per intenderci: non le mitragliate alla “Dinasty” (servono a ridurre le pretese degli attori in fase di rinnovo del contratto: “se non cedi sparisci”) e neppure le morti alla “Downton Abbey” (servono a far sparire un attore che ha trovato un ruolo migliore).
“Six Feet Under” vuol dire “Un metro e mezzo sotto terra”: la profondità a cui si interrano le bare. All’inizio di ogni episodio c’era il morto della settimana, quasi sempre a seguito di un incidentaccio. Da qui il personaggio di Federico Diaz detto Rico, provetto truccatore che avrebbe fatto la sua bella figura nel romanzo di Evelyn Waugh “Il caro estinto”. Detto di passaggio, un altro grande estimatore della cultura funeralizia americana era Albert Camus: da un viaggio negli Stati Uniti tornò con l’abbonamento a varie riviste specializzate.
La vocazione scatta quando il padre di Rico muore (giù dal tetto, faccia in giù sui mattoni) e dopo l’accurato lavoro della Fisher Funeral Home nella bara sembra vivo, e per niente sfigurato. Allora a gestire l’impresa era Nathaniel Fisher, che appunto crepa nel primo episodio della serie: travolto da un camion mentre in macchina si distraeva per accendere una sigaretta (scena che nessun fumatore mai potrà dimenticare). Tornerà, tipo fantasma, a chiacchierare con i figli: sono le uniche scene che riviste oggi hanno patito l’insulto del tempo.
Il genio dietro “Six Feet Under” – prodotto e trasmesso da HBO, e chi altri? lo slogan del canale a pagamento, che poteva permettersi temi e trame da pubblico adulto, era “It’s not tv, It’s HBO” – si chiama Alan Ball. Aveva appena vinto un Oscar per la sceneggiatura di “American Beauty” (diretto da Sam Mendes). Aveva appena avuto un’infelice esperienza tv con la sitcom “Oh, Grow Up”, sospesa dopo 13 episodi (“neanche io l’avrei guardata”, confessa). Aveva preso come spunto l’autobiografia di Thoams Lynch uscita con il titolo “The Undertaking – Life Studies form The Dismal Trade”. “Dismal” come “lugubre,” o come “malinconico”, o come la Dismaland che Bansky ha appena inaugurato in Cornovaglia (il titolo scelto nel 1998 dall’editore Zelig era “Confessioni di un becchino poeta”). Aveva una triste storia personale: a tredici anni era sopravvissuto alla sorella morta in un incidente d’auto, seduta nel sedile accanto a lui.
Morto il capofamiglia, il figlio Nate tornato a casa per le feste di Natale deve farsi carico dell’azienda. L’altro fratello David già ci lavorava, e non vanno per niente d’accordo, ma papà ha lasciato l’impresa a tutti e due. “Il testamento è l’ultima occasione che abbiamo per far dispetto ai nostri familiari”, diceva Thomas Hazlitt all’inizio dell’800. Quando aggiungeva “e raramente rinunciamo a sfruttarla” non aveva in mente le serie televisive. Ma l’antica – e moderna – saggezza funziona benissimo lo stesso, per far partire una trama.


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