Era meglio Franzen
In piena frenesia per “Purity” di Jonathan Franzen – prenotazione su Amazon scegliendo l’edizione inglese, che per via del fuso arriva prima ed è stata scaricata nel Kindle un minuto dopo la mezzanotte del 1 settembre – ci sentiamo fratelli in spirito dei lettori Usa che andavano sul molo ad aspettare la nave con le puntate dei romanzi dickensiani (una volta ci scappò l’incidente mortale). E torna in mente la serie tv che si sarebbe dovuta trarre da “Le correzioni”.
Commissionata dalla Hbo – che aveva scelto Noah Baumbach come regista, Franzen & Baumbach sceneggiatori, un cast stellare con Ewan McGregor, Maggie Gyllenhaal, Chris Cooper, Dianne Wiest – si chiuse con un nulla di fatto dopo la puntata pilota, nel maggio 2012. A guadagnarci fu “True Detective”, messa in cantiere subito dopo (sappiamo com’è finita: una stagione esaltante, la seconda disastrosa al punto che la si guardava per gusto dell’orrido). La Hbo e gli altri coinvolti nell’affaire hanno tenuto per anni la bocca chiusa, lasciando fiorire i pettegolezzi. Era troppo difficile, era troppo costosa, c’erano troppi personaggi, la trama era inadatta al ritmo settimanale. Solo lo scorso aprile Noah Baumbach si è lasciato sfuggire qualche parola in materia, sul sito Studio 360. Forse per rilanciare, ora che non soltanto la Hbo produce ottima televisione.
In effetti le spiegazioni non sono granché, a rafforzare l’idea che si tratti di un promemoria: “Ci siamo anche noi”. Baumbach dice di aver capito che il cinema è il cinema, e la tv è la tv. Non spiega però quali sono secondo lui le differenze, contraddicendo il dato di fatto che la tv è più coraggiosa, offre più libertà ai registi, consente di sviluppare meglio storie e personaggi. Si mostra titubante, più all’idea di far da spettatore a una serie protratta per tante puntate che all’idea di girarla. E accenna al denaro: con un cast così lussuoso le puntate costavano quanto “Game of Thrones”, pur non avendo né dragoni sputafuoco né battaglie medioevali.
Nel titolo dell’articolo c’è la parola “highbrow”, diciamo “d’élite”: non un gran viatico per una serie che vorrebbe diventare popolare. Tanto più che Franzen “highbrow” non è per niente, ed è questa una delle accuse che gli muovono i detrattori: piace a troppi. Ci sarebbe di che lanciare un dibattito sugli adattamenti letterari: Hitchcock preferiva i romanzi brutti o mediocri, a cui rubare solo uno spunto. Tra i mediocri metteva anche Boileau e Narcejac di “La donna che visse due volte”, coppia di scrittori che una volta erano considerati dozzinali e ora stanno nel catalogo Adelphi.
Noah Baumbach e Jonathan Franzen sono di nuovo accoppiati in un articolo di Esquire, sul sito da una settimana. Titolo: “Meet the new generation of cultural elites”. “Un’altra?” è la prima cosa da dire, dopo essere riusciti a districarci tra gli hipster e gli yuccie, che vogliono rimanere creativi, e però diventare molto ricchi, al diavolo la vita bohémienne. La nuova tribù – oops, la nuova élite culturale – ha l’etichetta di “crumbler”, da crumb che vuol dire “briciola”. Hanno visto sgretolarsi il vecchio ordine, sicuramente vivranno peggio dei loro genitori middle class. “Crumbler” è Purity detta Pip, nel romanzo di Franzen: un debito di studio da 130 mila dollari, a malapena una stanza tutta per sé. “Crumbler” è Brooke (l’attrice Greta Gerwig): arredatrice, insegnante di aerobica (prima o poi tutto torna, e sembra nuovo), vuole mettere su un ristorante a Williamsburg. In attesa di trovare i soldi, vede gente e fa cose.


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