Moralisti da social
La nuova Black Mirror di Netflix è tutto un lamento contro le nuove comunicazioni. Che barba
“Black Mirror" sì. “Black Mirror” no. “Back Mirror” forse, ma con riserva. C’è dibattito sulla serie di Charlie Brooker – antologica, ogni episodio funziona o non funziona in solitario – passata alla sua terza stagione da Channel 4 a Netflix. E va riconosciuto che il primo a vedere la crepa nello specchio nero dei nostri smartphone (o tablet, o computer) fu Aldo Grasso nel 2012. Il suo articolo a commento dei primi tre episodi della prima stagione parlava di moralismo. Moralismo, con l’aggravante di un bersaglio facile: i mezzi di comunicazione di massa che tutti amano infilzare appena si affacciano all’orizzonte. Salvo poi guardarsi indietro con nostalgia. Accadde con la radio, demonizzata all’inizio perché una voce può appartenere a chiunque: chi garantisce che non stiamo ascoltando un imitatore o un truffatore? E una voce senza corpo può raccontare qualsiasi cosa (come dimostrò Orson Welles con l’arrivo dei marziani). Quando nei tinelli arrivò la tv, della radio si cominciò a parlare con la lacrimuccia, rimpiangendo la comunicazione tranquilla e celebrando le parole a scapito delle immagini. Ricapita ogni volta che qualcosa di nuovo si affaccia all’orizzonte (però la lezione non la impariamo mai, ogni volta caschiamo nella trappola). Netflix ha investito più soldi, gli episodi della terza stagione sono diventati sei (sulla piattaforma dal 21 ottobre). Moralisti alquanto.
Aldo Grasso aveva avuto la vista lunga, e non si era lasciato ingannare dal primissimo episodio: i criminali rapiscono la Principessa, e per ridarla indietro chiedono al primo ministro britannico di accoppiarsi con un maiale. Gli altri erano meno interessanti, ma era tanto che in tv non si vedeva qualcosa di somigliante alla storica serie “The Twilight Zone”: storie “Ai confini della realtà”, scritte da menti geniali come Rod Sterling e Richard Matheson. Ogni episodio durava mezz’ora e faceva venire i brividi. Qua, altro che “schiaffo di intelligenza” (come scrive un fan conquistato alla causa). Durano un’ora o più, ed è tutto un lamento: “Signora mia, in che mondo tecnologico viviamo…”. Prendiamo il primo episodio, “Caduta libera” (regia del Joe Wright che fece “Orgoglio e pregiudizio” e “Anna Karenina” con Keira Knightley, qui l’attrice è Bryce Dallas Howard: il budget è più ricco e va speso). Siamo in un mondo dove tutti vanno in giro con il naso nello smartphone e recensiscono le persone che incontrano: colleghi d’ufficio, hostess al check-in, amici e conoscenti. Ammesso che si possano avere amici e conoscenti in un mondo in cui un punteggio alto (fino al massimo di cinque stelle) garantisce sconti sull’affitto della casa dei tuoi sogni. Lacie – così si chiama la protagonista – vuole innalzare il suo status.
Naturalmente incorre in una disavventura dietro l’altra, appena cerca di forzare la mano al destino. Seguono disavventure, non abbastanza veloci e non abbastanza grottesche. Se dobbiamo ridere per una zitella grassoccia e vestita di bianco che finisce nel fango, tanto valeva andare al cinema a vedere l’ultimo film con Bridget Jones. Se dobbiamo guarire dalla mania di cliccare “mi piace” ogni volta che gli amici fotografano la pizza al ristorante, tanto valeva farsi raccontare da Fabio Genovesi (a Bookcity) che nessuno ordina più la classica Margherita, in foto viene male. Peggio: la cacciatrice di stelle incontra una camionista ora ai margini della società. Che le spiega cosa conta davvero, e comincia “anche io qualche anno fa ero come te, poi mio marito si è ammalato”. Se lo spettatore sbuffa, non ha mica tutti i torti.