“The Night Of - Cos’è successo quella notte?”

Incubo da poltrona

Mariarosa Mancuso

“The Night Of - Cos’è successo quella notte?”, ovvero l’angoscia propiziata da gente bravissima

Il giovanotto si caccia da solo nei guai. Non è mai andato a una vera festa, con gli sportivi che invidia – lui ha la faccina del secchione – e finalmente lo invitano. Abita nel Queens e la festa è a Manhattan, ci saranno molte belle ragazze. L’amico con la macchina gli dà buca, il giovanotto (nato negli Stati Uniti, figlio di pachistani) prende il taxi che papà si spartisce con altri autisti e guida verso Manhattan. Dove perde la strada e l’orientamento. Dove viene molestato dai clienti che vedono la luce accesa (non riesce a trovare l’interruttore per spegnerla). Sale una ragazza con l’aria triste. Piuttosto ricca, a giudicare dall’appartamento dove abita e dalle droghe che prende (il giovanotto non ha l’aria molto esperta in pasticche o polverine). Giocano con un coltellaccio, come non si dovrebbe fare nemmeno da sobri (e come faceva Marina Abramovic in una sua performance).

 

“The Night Of - Cos’è successo quella notte?” ha la struttura di un incubo. Anche per noi che stiamo a guardare. Comodi in poltrona, osserviamo i passi falsi del giovanotto, e dopo il primo quarto d’ora siamo in preda all’angoscia. Non ne azzecca una quando le cose sono relativamente tranquille – al massimo rischia un cerchio alla testa colossale, magari un tamponamento con la macchina. Figuriamoci quando la situazione si fa davvero rischiosa: si sveglia nel letto della ragazza, morta e insanguinata (si direbbe dai lividi anche molto malmenata). Fugge, ma prima afferra il coltello sporco di sangue e se lo infila nella giacca. Nonostante questo, quando la polizia lo ferma (per altri motivi, vicino alla scena del crimine), passa un po’ di tempo prima che trovino il coltello e facciano due più due: vuoi vedere che il giovanotto dall’aria strana in viaggio verso la centrale di polizia è il feroce assassino che stiamo cercando?

 

La miniserie (otto puntate in tutto, dal 25 novembre scorso su “Sky Atlantic”) ha nei titoli il nome di James Gandolfini come produttore esecutivo. Postumo. Giusto per ricordare che il pilot era stato girato con lui – non nella parte del giovanotto che si mette nei guai, sua era la parte dell’avvocato ora ereditata da John Turturro con i piedi rovinati dall’eczema (dopo un passaggio a Robert De Niro, prima che si ritirasse per troppi impegni concomitanti). Rimangono Richard Price come sceneggiatore (aveva scritto “Clockers” per Spike Lee, e diretto episodi di “The Wire”) e Steven Zaillian come regista (tranne l’episodio 4 diretto da James Marsh di “Man on Wire”: la passeggiata di Philippe Petit sul filo teso tra le Twin Tower).

 

 

Come dire: tutta gente bravissima, che sa fare il suo mestiere. E quando adatta la serie britannica “Criminal Justice” rispetta l’assunto di fondo. Non interessa sapere come procedono le indagini, neanche quali sono gli altri sospettati. Il punto di vista appartiene a giovanotto che si trova in galera e crede di esserlo ingiustamente – l’attore, bravissimo, è Riz Ahmed, lo Steve Jobs asiatico nell’ultimo film con lo smemorato Jason Bourne. Crede: neppure lui ricorda cosa ha fatto quella sera, durante il black provocato dall’alcool e dalle droghe. Testimoni per scagionare il giovanotto non se ne trovano. La libertà su cauzione viene negata.

Non funziona come una serie poliziesca. Accumula dettagli, inefficienze, lentezze (non solo burocratiche), apprendistato carcerario, procedure scorrette. E tenta il salto mortale: come la prima stagione di “True Detective” – di cui imita anche la sigla – ha come modello il cinema d’autore.