Fuori di testa

Mariarosa Mancuso

Pensavamo non fosse possibile andare oltre certe stranezze. Poi abbiamo visto BoJack Horseman

Andando ai festival e curiosando tra le stranezze capita di annotare punti di non ritorno. Un film tutto parlato in latino? Visto, era “Sebastiane” di Derek Jarman: con l’aggravante che il latino pecoreccio – ricordiamo preciso l’invito “vis fornicare mecum”? – era pronunciato all’inglese. Mai più ricapitò (Derek Jarman girò un film tutto blu, ma non è la stessa cosa). Un film d’animazione fatto con giocattoli di plastica, i cow boy e gli indiani che per reggersi dritti hanno la pedanina? Visto, con il titolo “Panico al villaggio”, lo hanno girato nel 2009 i registi belgi Stéphane Aubier e Vincent Patar. Il cow boy e l’indianino erano amici di un cavallo, anche lui in plastica, che dormiva sul divano e per strigliarsi andava sotto la doccia. Pensavamo non fosse possibile andare oltre. O almeno: ne eravamo convinti prima di vedere “BoJack Horseman” (su Netflix, tre stagioni disponibili – pensate da Raphael Bob-Waksberg e disegnate dalla fumettista Lisa Hanawalt – e una quarta in arrivo). Protagonista: un cavallo piuttosto depresso, come si conviene alle celebrità sul viale del tramonto che cercano di rimontare. Era il protagonista di una sitcom – una sitcom dentro la serie che stiamo vedendo, l’incastro ha ormai conquistato anche la tv: capita quando i linguaggi maturano e gli sceneggiatori sgomitano – intitolata “Horsin’ around”. Trama: il cavallo adotta tre orfanelli portando la felicità nelle loro vite. Gli anni migliori se ne sono andati – lasciando BoJack proprietario di una bella villa sulle colline di Hollywood, potrebbe da un momento all’altro spuntare la comparsa indiana Peter Sellers e far disastri alla “Hollywood Party”.

Non succede, siamo più dalle parti di Larry David, il brontolone scelto da Woody Allen per “Basta che funzioni” nonché titolare della serie “Curb Your Enthusiasm”. Il battibecco sull’ultima scatola di muffin sottratta nella corsia del supermercato a una foca che si rivela essere un eroe di guerra potrebbe stare indifferentemente nell’una o nell’altra serie. Unica differenza: attorno al cavallo alcolizzato che ogni mattina trova una ragazza diversa in cucina – “devo mettere il cellulare in modalità aereo quando mi sbronzo” – vivono altri animali e qualche umano. Un ragazzo alternativo – leggi: sfaticato – che squatta il divano e chatta con bellezze russe molto interessate ai conti bancari. L’ex fidanzata e attuale agente Princess Caroline: una gatta rosa che per scaricarsi i nervi gioca con un topolino di pezza. Un pinguino editore sull’orlo del fallimento, che ha fatto a BoJack un contratto per un’autobiografia (di cui non esiste una riga). Il cagnolone Peanutbutter, titolare di un reality show: l’occasione per il cavallo di rimpiangere la tv intelligente – finita con la sua sitcom, che riguarda ossessivamente (e noi con lui). Fuori di testa è minimo che si possa dire. Quel fuori di testa con tutti i dettagli al posto giusto. A cominciare dalla sigla: il cavallo viene disegnato e inquadrato in posa da Dan Draper in “Mad Men”.

Punto di non ritorno – finora, ma ormai non siamo più sicuri di niente – l’episodio “Pesce fuor d’acqua”. BoJack porta un suo film all’ultimo festival del cinema dove ancora lo invitano. Al Sundance non può più andare da quando ha insultato Robert Redford: “L’uomo che sussurrava ai cavalli” era offensivo. A Cannes non lo invitano più da quando ha insultato Sartre e i francesi. Siamo tra pesci e crostacei, che borbottano emettendo bolle d’aria. Non si capisce una parola. L’ultimo dei film muti sta in una folle serie tv. 

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