Una scena di You me her (foto via YouTube)

L'età del poliamore

Mariarosa Mancuso

Né adulteri né corna. “You Me Her” è il simbolo del nuovo corso: serie di nicchia con sbadiglio

A Portland c’era – ed è rimasta per parecchio dal 2011, l’ottava e ultima stagione andrà in onda il prossimo anno – la serie “Portlandia”. Gli showrunner, nonché attori, Freddie Armisen e Carrie Brownstein raccontavano coppie che al ristorante vogliono sapere se il pollo nel loro piatto ha trascorso una vita felice mangiando granturco biologico. Pollo lesso, immaginiamo: se a Milano le signore chic di piazza Gae Aulenti non friggono (copyright “Poveri ma ricchi” di Fausto Brizzi, l’unica battuta del film che mette allegria) gli hipster dell’Oregon certo non arrostiscono. Finito il pranzo, vanno nella libreria delle femministe tanto femministe – sempre Carrie, con Freddie imparruccato – che non vogliono vedere dita puntate verso gli scaffali (alludono, alludono). Se devono cambiare un neonato lo fanno senza guardare (per non influenzarlo crescendolo da maschio oppure da femmina).

 

A Portland vivono anche Emma e Jack, coppia senza figli circondata da coppie con molte carrozzine nella villetta suburbana. Siccome i bambini bisogna farli, non li porta la cicogna avvolti nel fagottino, decidono di passare più tempo tra le lenzuola. Più facile a dirsi che a farsi, nell’età in cui – scopre Emma, buona ultima ché queste cose nessuno te le insegna – “i postumi di una sbronza durano 24 ore”. Dal 10 febbraio su Netlflix, “You Me Her” spiattella tutto fin dal titolo. Non siamo più nell’età dell’adulterio che rendeva interessanti romanzi, film, fumetti, serie. Le prime due stagioni di “The Affair”, per esempio. La terza crolla con l’arrivo di Iréne Jacob, l’amante francese e professoressa di filosofia. Luoghi comuni a piovere, pronunciati con accento parigino: rivogliamo Alison, la cameriera che serviva aragoste senza sapere chi fosse Jonathan Franzen. Non siamo più nell’età delle corna. Siamo nell’età del poliamore. Jack affitta una escort (più dilettante che professionista), pomicia un po’ con lei, confessa subito il misfatto alla moglie. Emma incuriosita chiama la stessa escort – ma le password nel computer nessuno le mette mai? – esce con lei, altra pomiciata. Si riscopre lesbica – ulteriore confessione al marito che nulla sospettava – e mettono su un allegro terzetto scopereccio. Lo sbadiglio arriva quasi subito.

Più che una serie scritta da un umano intelligente, sembra uscita da una macchina che unisce i puntini. Mirata soltanto a un pubblico di nicchia. E’ un effetto collaterale dell’abbondanza: i canali tv e le piattaforme richiedono sempre più prodotto, cadono le barriere d’entrata, non bisogna più sgomitare, la minima idea viene sviluppata e messa produzione. Sono finiti i tempi in cui assieme guardavamo “I Soprano”, “Lost” o “Mad Men”. Ora ogni spettatore pretende serie su misura, guai a farsi contaminare da qualcosa di diverso. Era molto meglio, per rimanere nel segmento “beato tra le femmine”, “Big Love”: il mormone poligamo Bill Paxton a Salt Lake City con tre mogli e sette figli (vivono in case vicine, per non dare nell’occhio), sfiancato dalle richieste materiali e sentimentali. Per protesta e per sbadiglio, siamo tornati a “Portlandia”, rivedendo le scene di culto (ne ha fatto un elenco il Guardian, ma ognuno ha le sue, e il pollo di cui si esige la genealogia sta in tutte le liste). Nel genere surreale, “Put A Bird on It!”: decorare con gli uccelli, ricamati o in ceramica (anche come bruciatura sul toast). Nel genere “sono tra noi”, chi spiffera i finali dei film (“la mamma di ‘Psycho’ è lui con la parrucca”). O gli antipatici che hanno già letto e già visto tutto. Mariarosa Mancuso

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