Fondi e delitti
Il terreno minato tra giustizia e investimenti di “Billions”, dove arrivano class action e gender
Riassunto delle puntate precedenti, la seconda stagione di “Billions” va in onda su Sky Atlantic dal 20 febbraio (24 ore dopo che se la godono gli spettatori d’America, non siamo più i parenti poveri). In campo – diciamo così, giustizia e fondi d’investimento messi insieme sono piuttosto un terreno minato – troviamo Bobby Axelrod detto “Axe” e Chuck Rhoades. Giovane miliardario il primo, un ex caddie che portava le sacche ai giocatori di golf, ora specializzato in molto redditizi (per lui, almeno) fondi d’investimento. Procuratore distrettuale del Southern District di New York il secondo: figlio d’arte, non ha mai perso una causa e pensa in cuor suo che ogni grande ricchezza nasconda loschi segreti.
Bertolt Brecht la metteva così: “Il delitto è fondare una banca, non rapinarla”. In “La vita oggi”, Anthony Trollope racconta un gigantesco scandalo finanziario londinese scoppiato negli anni Settanta dell’800. Emile Zola scrisse un romanzo intitolato “Il denaro” – speculazioni, aumenti di capitale, rialzi e ribassi, fondi neri, imbrogli nella Parigi nel 1891. Quando raccontò la nascita del primo grande magazzino di Parigi (“Al paradiso delle signore”) ebbe cura di far morire una fanciulla in visita alle fondamenta della nuova costruzione. Chi voleva capire capì, tanto più che Caroline – così si chiamava la malcapitata – era rimasta erede unica dopo altre sfortunate circostanze.
Bobby Axelrod è ormai l’unico proprietario della Axe Capital. Tutti gli altri soci (lo sappiamo dalla prima stagione) sono morti nell’attentato alle Twin Towers. Sospetto, molto sospetto. Come sono sospetti, agli occhi del mastino-procuratore distrettuale, i molti denari che il miliardario dà in beneficenza. Aggiungiamo che il ricco è fascinoso come Damien Lewis (era Brody in “Homeland”, tornato dopo la prigionia in Iraq per far girare la testa a Claire Danes, agente dell’Fbi). Il procuratore distrettuale ha la pelata e la pancetta di Paul Giamatti, sposato con una moglie che di notte gli pianta il tacco a spillo nel costato, e di giorno lavora come psicologa aziendale per l’arcinemico Axelrod (dotato di moglie bionda dai modi bruschi, capita quando non sposi un’ereditiera). Abbastanza per appassionarsi, anche se tra le vostre letture predilette non compare “Too Big To Fail”: il libro che ha reso famoso Andrew Ross Sorkin, ideatore e showrunner della serie.
Queste erano le pedine. All’inizio della seconda stagione, le fortune del procuratore distrettuale sono in ribasso. La moglie lo ha lasciato. I superiori hanno avviato un’inchiesta contro di lui (controllati i conti bancari, salta fuori che la psicologa aziendale ha ricevuto svariati milioni da Axelrod: chi ha visto la prima stagione sa il motivo, gli altri lo scopriranno via via). Il miliardario ha dovuto sgomberare il palazzo dove hanno sede i suoi uffici: guasto o sabotaggio? D’ora in poi tutti dovranno indossare un braccialetto magnetico, “la fiducia ha distrutto l’azienda”. Spiega ai suoi che potrebbero presto estinguersi come i dinosauri sotto la pioggia di meteoriti. Passano pochi giorni, e arriva l’orribile verità (una delle tante, siamo solo al primo episodio): “Sono stato citato in giudizio da tutte le persone che conosco”. Una class action, contro un uomo solo.
Il tempismo un po’ funziona e un po’ no. Per esempio, le dichiarazioni fiscali di Donald Trump erano un mistero in campagna elettorale e restano tali ora da presidente. In ufficio però è arrivata la nuova stagista “gender fluid”: geniale, vegana, rapata a zero, in camicia a scacchi da cow-boy.