Da Bordertown a Baldwin e Letterman: si ride, un po'
Lì dove i comici esistono e resistono, Donald Trump è una benedizione
Walter Benjamin – lo scrittore e studioso che con i suoi saggi celebrò Parigi capitale del XIX secolo, centro del mondo e della modernità – aveva teorizzato “l’ora della leggibilità”. Scocca quando un romanzo incontra i suoi lettori dopo un disastroso inizio. Passano gli anni, passano i decenni, finalmente scocca la scintilla. Vale per “Stoner”, il romanzo di John Williams diventato un successo internazionale, di critica e di pubblico, negli anni Zero (quando uscì negli Usa, era il 1963, ne furono vendute duemila copie in tutto). Vale per Kent Haruf, scrittore del Colorado che alla prima edizione Rizzoli rimase nel mucchio, e ora – riproposto dalla casa editrice NN – ha scalato la classifica dei best-seller.
Per le serie, potremmo parlare di “ora della vedibilità”. Ne ha fatto le spese, lo scorso maggio, la serie d’animazione “Bordertown” scritta da Mark Hentemann e prodotta da Seth MacFarlane, più riconoscibile come showrunner dei “Griffin”. Iniziata negli Usa lo scorso gennaio (per gli spettatori italiani, era su Fox Animation e sarà a fine marzo su Netflix), ha vissuto tredici episodi soltanto, colpa degli ascolti troppo bassi. Sarebbe bastato resistere fino alle elezioni presidenziali, gli ascolti sarebbero schizzati alle stelle.
“Bordertown” è ambientata a “Mexifornia”, cittadina sul confine tra Messico e Stati Uniti. Lì abitano, ognuno nella sua casetta con giardino e steccato, la guardia di frontiera Bud Buckwald (uno che gli immigrati li odia anche nel tempo libero) ed Ernesto Gonzalez, felice di vivere con la sua famiglia nel nuovissimo Eldorado. Già battibeccano – sulle usanze, i cinturoni con la fibbia, la tortilla e il barbecue – quando la figlia dell’americano si innamora del nipote del messicano. La faida viene risolta dal “deportation cannon”: un cannone a stelle e strisce che spara i clandestini di là dal confine. Nel secondo episodio, i cittadini discutono sull’idea di un muro che trumpianamente possa risolvere il problema (non ricordiamo però che parlassero dei costi da caricare sul governo messicano).
Un episodio della webserie “Trumpocalypse” – anche questa d’animazione, anche questo diffuso prima che Donald Trump fosse eletto presidente – risolve diversamente la questione. Il presidente americano e Wladimir Putin sono i giurati di un programma tv intitolato “So You Claim You Can’t Salsa Dance?” (“Vorresti farci credere che non sai ballare la salsa?”). I concorrenti sono messicani, parte la musica, i Tony Manero della situazione cercano di resistere ma non ce la fanno. “Mexican!” decreta il giudice con i capelli arancioni, “Mexican!” decreta il giudice pelato (che ha appena rimbrottato il conduttore perché lo ha chiamato Putìn con l’accento sulla “i”). “Deported” è l’ultima scritta stampigliata sullo schermo. Avanti un altro.
“A First Draft of History, Told in 117 Days of Trump Jokes”: leggiamo il titolo sul sito Vulture. I primi 117 giorni di presidenza raccontati elencando le migliori battute su Donald Trump. Gran benedizione per i comici, che negli Usa sono una schiera, mica come da noi che esiste solo Maurizio Crozza, sempre Maurizio Crozza, a volte stancamente Maurizio Crozza. Su tutti svetta Alec Baldwin, che imita Trump al Saturday Night Live. Secondo David Letterman, dovrebbe essere premiato con la Medal of Freedom del Congresso. Se solo si trovasse un presidente disposto ad appuntargliela sul petto.