Quando nei talk-show ci si prendeva a sediate. Ecco “Eighties”, in otto settimane

Mariarosa Mancuso

Arriva la serie prodotta per la Cnn da Tom Hanks e Gary Goetzman. La coppia aveva già sfornato “Sixties” e “Seventies”: non sono particolarmente affezionati al decennio, sperano nel pubblico nostalgico

Avevano sparato a J. R. e noi spettatori italiani neanche sapevamo chi fosse. Non sapevamo di Southfork Ranch, non sapevamo di Sue Ellen (un bene, per le bambine che sarebbero state registrate all’anagrafe come “Suelle”), non sapevamo della matriarca Ellie (Barbara Bel Geddes era per noi l’amica di James Stewart che in “Vertigo” di Alfred Hitchcock progettava reggiseni con spalline rinforzate). Era l’estate del 1980, i colpi di pistola arrivarono in chiusura della terza stagione di “Dallas”, grandioso spot per la quarta che poi tardò, causa sciopero degli attori. Solo a settembre del 1981 Canale 5 manderà disordinatamente in onda i primi episodi della prima stagione. Cose che potevano succedere solo negli anni 80. Lo scorso gennaio il finale di stagione di “Sherlock” fu hackerato dai russi e messo online prima di essere trasmesso sulla Bbc.

 

Con “Dallas” e con “Mash” parte la prima puntata di “Eighties”, la serie prodotta per la Cnn da Tom Hanks e Gary Goetzman (da ieri, per otto martedì, su Sky Arte). La coppia aveva già sfornato “Sixties” e “Seventies”: vuol dire che non sono particolarmente affezionati al decennio, sperano nel pubblico nostalgico. L’ultima puntata di “M*A*S*H”, ovvero Mobile Army Surgical Hospital – la serie tratta dal film di Robert Altman che vinse la Palma d’oro a Cannes del 1970, a sua volta tratto dal romanzo di Richard Hooker appena uscito da Sur – fu vista da 123 milioni di spettatori, Kissinger e Reagan mandarono bigliettini di commosso addio. Cose che potevano capitare solo nel 1983, quando non c’era ancora la tv via cavo, non era ancora scattato l’assalto al pubblico di nicchia (e non esisteva neppure un canale tv totalmente dedicato allo sport: c’è una ragione per chiamarla “l’età della penuria”).

 

Gli altri “Eighties” parleranno di Ronad Reagan, di Aids, del Muro di Berlino buttato giù, di Wall Street che entra nell’immaginario di chiunque, di “Video Killed the Radio Stars” (con il senno di poi, vero solo in parte: i podcast costano poco e sono più originali di tante radio chiacchierone). Il primo episodio parla solo di televisione, dalle serie ai primi talk-show dove ci si prendeva a sediate: il conduttore Geraldo Rivera cercando di separare due contendenti ne uscì con il naso rotto, finì sulla copertina di Newsweek (sulla copertina di Time invece era finito J. R.). Già si invitavano i transgender, che incrociati con l’orribile guardaroba e le orribili pettinature dell’epoca sono uno spettacolo nello spettacolo (parità vuol dire anche “farsi prendere in giro come il resto del mondo”). Oprah Winfrey arrivava in studio con trenta chili di grasso in un sacco, tanti ne aveva persi con la dieta.

 

I “signora mia” sono triti e ritriti. “Una volta si diceva ‘Io c’ero’ ora si dice ‘L’ho visto in tv’”. Lo dicono alla tv, ovvio. Con il sussiego di chi trova la generazione successiva più infrequentabile e sciocca della propria (c’era anche la fase intermedia “l’ha detto la radio”, ma la radio ha un ufficio stampa migliore della tv, e poi di internet, e poi dei videogiochi, di lei si dice soltanto bene come del treno, non necessariamente italiano). E francamente già sapevamo l’importanza di “Hill Street giorno e notte”, “Miami Vice”, “Avvocati a Los Angeles”, “thirtysomething” nella storia della tv. Resta la meraviglia di “Moonlighting”, 67 episodi dall’85 all’89: Bruce Willis e Cybill Shepherd in amorosa – e poliziesca – schermaglia. Arte perduta, assieme all’arte del doppio senso capace di non farsi beccare dalla censura.

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