La situazione delle serie tv non è tanto grave, solo un tantino sovraffollata
Quando la serie televisiva tenta di imitare il cinema impegnato, ecco che Cechov si rigira nella tomba
La bambina vedeva un programma tv per spettatori più grandicelli, era evidente che non ci capisse granché. Niente di proibito, intendiamoci; non son più i tempi in cui si aspetta di crescere per il porno, l’alcool, lo spinello: ora si cresce per diventare vegani (e se proprio uno vuole vivere pericolosamente evita le vaccinazioni). La bambina non capiva il programma, e neanche si divertiva. Lo vedeva soltanto per imitare l’amica più grande. Voleva darsi un tono, come tutti.
La storiella di vita familiare era sul New York Times. E’ rispuntata dalla memoria quando abbiamo letto sul New York Magazine un “listicle” - sono gli articoli che soddisfano la nostra vertigine della lista (copyright Umberto Eco), la nostra pigrizia, la nostra cedevole attenzione: sappiamo subito dove saltare se qualcosa ci annoia. Titolo: “13 Signs You’re Watching a ‘Prestige’ Tv Show”.
Tredici indizi per sapere se stai guardando un programma figo. Tredici indizi – qui sta la novità – lasciati cadere come le pietruzze di Pollicino dagli showrunner medesimi. Questo sostiene Kathryn VanArendonk che firma l’articolo: i segni di figaggine sono incorporati. Telefonati, aggiungiamo noi che abbiamo una certa esperienza con il cinema d’autore, i suoi intensi primi piani e i suoi lunghi silenzi. E’ come la follia concava e la follia convessa di cui parlava Karl Kraus, nella Vienna di inizio Novecento: il regista artista dissemina segnali, il critico li coglie, vivono a lungo felici e contenti fregandosene dello spettatore che intanto sbadiglia.
La situazione delle serie tv non è tanto grave. Solo un tantino sovraffollata. Le argomentazioni che una volta facevano saltare i nervi alle professoresse democratiche – “le serie tv hanno preso il posto dei libri e del cinema”, sosteneva Aldo Grasso in “Buona maestra televisione”, anno 2007 – sono diventate slogan. “E’ come un romanzo” (dicono gli americani, che beati loro non sanno nulla del Premio Strega). “E’ un film di 73 ore”: così è stata annunciata – ex post, all’inizio nessuno sapeva quanto sarebbe durata – la settima stagione di “Game of Thrones”. Nella corsa a chi ha il serial più lungo, Netflix (leggi: l’ultimo arrivato che ha scardinato le regole, mettendo nel 2013 a disposizione degli abbonati l’intera stagione di “House of Cards”) azzarda “il pilot non esiste più”. Esiste la prima stagione, che ormai funziona come assaggio. E pazienza per chi voleva porzioni più piccole, prima di scegliere.
Per una serie prestigiosa bisogna risparmiare sull’illuminazione, suggerisce ancora l’articolo (e dire che “Lost” era cominciato con i naufraghi sotto il sole). Deve essere una serie impegnativa da vedere: guai a saltare un episodio perché ogni dettaglio conta. Per dirla alla maniera di Cechov (che scriveva racconti): non sai mai quando il chiodo nel muro mostrato nel primo capitolo servirà al protagonista per impiccarsi. “Capitolo” non è una svista: segno sicuro di figaggine è ribattezzare “capitoli” gli episodi (andavano in onda uno alla settimana, prima della rivoluzione).
Scansione destinata a sparire, peraltro. Se le serie si presentano come lunghi film, gli episodi sono in pericolo. E’ questa – non le atmosfere cupe, perché guai a divertirsi, con le serie prestigiose, e sia chiaro che qualsiasi tv con le risate registrate è il diavolo serializzato – la conseguenza più tragica. La divisione in episodi, come tutti i vincoli e tutte le strutture, arricchisce la serialità. Solo agli showrunner scarsi di fantasia sembra una gabbia da cui liberarsi.