Scrivere uno sguardo
La bravura degli sceneggiatori di “Gomorra” non potremmo esportarla anche nel cinema?
“Abbiamo scelto il meglio”. Lo garantivano i produttori di “Gomorra” all’avvio della prima stagione televisiva, proseguendo nella direzione giusta: già il film diretto da Matteo Garrone aveva preso il libro di Roberto Saviano collocandolo senza ripensamenti sullo scaffale della fiction. Non sullo scaffale del reportage con i nomi, i cognomi, la camorra che ti vuole ammazzare. Una cosa volevamo chiedere allora, e una cosa vogliamo chiedere adesso, ai produttori che vengono dal cinema (Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz, Gina Gardini): non si potrebbe scegliere il meglio anche lavorando per il grande schermo, togliendo il cinema italiano dall’imbarazzante stato in cui si trova?
La terza stagione di “Gomorra” – due episodi programmati nelle sale il 14 e 15 novembre hanno incassato 500 mila euro, che di questi tempi non sono da buttare via, il debutto lo scorso venerdì su Sky Atlantic ha battuto il “Trono di spade” – continua a sfoggiare tutto quel che al cinema italiano ancora manca. Non stiamo parlando solo dei criminali che la abitano, mentre sullo schermo son tutti simpatici e carini, al massimo con scivolate di volgarità per famiglie. Ha una sceneggiatura vera, non le pagine di dialoghi fintamente colti care ai registi che buttano giù da soli i copioni (così poi possono dire in conferenza stampa: “E’ un film che sento profondamente mio”). Dietro “Gomorra, la serie” c’è gente che scrive bene – i nomi sono Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli, Ludovica Rampoldi.
Servono gli sceneggiatori bravi anche se i camorristi pronunciano poche parole, quasi sempre in napoletano stretto e bisognose di sottotitoli – non andrà meglio quando la terza stagione si aprirà verso “le Scampie d’Europa”. Vanno scritti – e sono difficili da girare bene – anche gli sguardi (raramente di complicità, qualche volta di intesa, più spesso di odio, sempre di sospetto). Vanno scritti i morti ammazzati in pose plastiche davanti alla cappella di famiglia. Vanno scritti i funerali in pompa magna, con gigantografia proiettata sul muro delle Vele di Scampia. Vanno scritti i carri funebri con le candele elettriche e l’oro barocco – fanno sembrare la casa dei Savastano un appartamentino minimalista. Magnifica anche la casetta che Genny ha comprato per la consorte, a Roma, dopo la nascita dell’erede (sfortunato lui): esterno bianco e geometrico, interno ribollente di broccati (“l’ha fatta uno di Secondigliano che ha vissuto un po’ in Inghilterra” spiega Genny con la testa mezza rasata e mezza con i riccetti brillantinati).
E’ morto Pietro Savastano, come sanno gli affezionati alla serie. Non stiamo neanche a contare gli altri cadaveri: registriamo che anche qui – come nel “Trono di Spade” – nessuno è al sicuro. Né Genny, né Ciro detto l’Immortale (peraltro molto somigliante a Roberto Saviano), né Malammore. Cominciano i sospetti, le vendette, i doppigiochi, una bella scelta di “figure nel paesaggio”: vendicatori e killer su sfondi desolati.
Al confronto, “I Soprano” erano gente che se la spassava a guardare le anatre in piscina consolandosi con le sedute dalla dottoressa Melfi, destinataria di qualche mezza verità: “Lavoro nello smaltimento rifiuti”, dice Tony Soprano mentre un cadavere avvolto nella plastica viene buttato in discarica. In “Gomorra 3” il nemico sudamericano viene fatto a pezzi con la mannaia, la testa avvolta nella plastica per la fotografia, sotto gli occhi terrorizzati del contabile Gegè, che sa pulire i soldi sporchi ma non ha idea di quanta fatica serva per togliere il sangue da un pavimento di mattonelle.