She's Gotta Have It: Spike Lee torna sul luogo del delitto

Il regista gira da capo il suo capolavoro, e lo fa in forma di serie. Nola sembra scritta ieri

Mariarosa Mancuso

A sentire che i registi tornano sul luogo del delitto – il loro primo film, la loro prima ossessione, il loro primo successo – viene la tremarella. Gli anni passano, i temi invecchiano, i calchi stancano. A voler essere cinici: meglio annoiarsi con chi inciampa su una via sconosciuta che soffrire con chi arranca dove una volta saltellava spedito.

    

Spike Lee supera tutte le difficoltà, e vince alla grande. Ha scritto (in parte) e diretto (tutti i dieci episodi) una serie tratta dal film che lo fece conoscere al mondo – titolo italiano “Lola Darling” – e gli oltre trent’anni trascorsi non si sentono. Siccome nel frattempo l’inglese lo abbiamo studiato, resta il titolo originale e colloquiale “She’s Gotta Have It”: nel 1986 la protagonista “Nola” era diventata “Lola”, meno ostico alle orecchie italiane (dal 23 novembre su Netflix).

     

Si parla di sesso, faccenda che negli ultimi decenni – in buona compagnia con il cibo – ha conosciuto la rivoluzione. Si comincia con una serie di coloriti approcci da strada – oggi: molestie – che Nola riferisce senza troppo preoccuparsi. Ha già abbastanza da fare a dipingere, a cercare la sua strada nel mondo dell’arte, a chiacchierare con le amiche – è lecito rifarsi le chiappe a palloncino, partecipando alla trasmissione che mette in palio un culo nuovo, o bisogna accettarsi per come si è? Molto tempo serve per ricevere i tre amanti che si alternano nella sua camera da letto (anche in cucina, sul tavolo, sotto la doccia). Il separato in casa che le porta i fiori, il macho che improvvisa uno spogliarello e resta in mutande Calvin Klein (si libera con destrezza dei calzini, guadagnando qualche punto extra), il nerd con l’apparecchio ai denti che fabbrica e ripara biciclette per gli hipster che hanno invaso Fort Greene, a Brooklyn.

   

A Fort Greene Spike Lee è cresciuto, lì sognava di comprarsi una brownstone uguale a quella della sua infanzia, leggiamo in un’intervista sul New York Times. Nel film aveva tenuto per sé il ruolo del nerd – quando nerd non era ancora propriamente un complimento, altra misura del tempo trascorso. Nella serie, Nola guarda in macchina, rivolgendosi direttamente allo spettatore, e gli fa capire subito che tre amanti sono il giusto – circola anche una femmina per gli extra. Non consentirà a nessuno di chiamarla “sgualdrina”. Così i sottotitoli e il doppiaggio italiani risolvono il termine “freak” – ascoltato nell’86, avremmo pensato al libro di Leslie Fiedler sui mostri, oppure al film di Todd Browning, oppure ai nostrani fricchettoni. Solo la colonna sonora, con le copertine dei vinili inquadrate come nature morte, dimentica il calendario e alterna il rap a Roberta Flack.

     

“A Spike Lee Joint”: questo fa scrivere nei titoli di testa il regista che ha chiamato la sua casa di produzione “40 Acres & a Mule” (il pezzetto di terra e il mulo dato agli schiavi liberati per risarcimento). “She’s Gotta Have It” arriva dopo il musical “Chi-Raq”, che aggiornava nella Chicago della guerra per bande – lasciano sull’asfalto più cadaveri della guerra in Iraq, da qui il titolo – la “Lisistrata” di Aristofane e il suo sciopero del sesso. “No peace no piece” era la frase di lancio sui manifesti, a ornare una capigliatura afro.

        

Niente in confronto all’ultimo episodio della serie. Nola convoca per il giorno del Ringraziamento tutti e tre gli amanti, che vivendo nei dintorni si erano già sfiorati a una mostra di quadri suoi. I poveretti se la passano male quasi quanto il tacchino. Arma del delitto, un altro quadro particolarmente realista.

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