L'ideologia del chilometro zero dal cibo trasmigra al cinema e alle serie
Davanti al problema “Come far piacere agli spettatori il cinema e le serie italiane”, Dario Franceschini ha pronta la soluzione. Solo che da noi il cibo è spazzatura
Sapienti della Grande Accademia di Lagado, stringetevi per accogliere un nuovo arrivato. Sono i cervelloni incontrati da Gulliver nei suoi viaggi, non hanno altro scopo nella vita che rendere il mondo un posto migliore. L’architetto inventa un nuovo modo di costruire le case, prima il soffitto e giù fino alle fondamenta. Il chimico cerca il modo di rammollire il marmo, così da ricavarne guanciali e materassi. L’allevatore seleziona pecore senza lana. Il linguista cerca di sostituire le cose alle parole: non sarebbe più pratico, in una conversazione, portarsi dietro gli oggetti di cui si intende parlare? Davanti al problema “Come far piacere agli spettatori il cinema e le serie italiane”, Dario Franceschini ha pronta la soluzione. Basta costringere le tv a trasmettere prodotti italiani in prima serata. Basta costringere le piattaforme streaming a valorizzare i prodotti locali su homepage, menu, banner. Detto e fatto, in fondo che ci vuole? Incredibile che nessuno mai ci abbia pensato prima.
L’ideologia del chilometro zero dal cibo trasmigra al cinema e alle serie. Solo che una volta si chiamava protezionismo, o autarchia. La pizza è italiana, lo champagne è francese, il cinema e le serie sono – prevalentemente – americane. Accade per molti buoni motivi, non ultimo l’odio feroce che gli intellettuali e gli scrittori nostrani hanno nutrito verso la narrazione e il romanzo, considerandoli cosa sciocca e vacua. E se uno certe cose non le coltiva – preferendo la prosa d’arte, i frammenti, l’elenco di incipit – poi è difficile che i frutti siano rigogliosi.
I film e le serie italiane, se e quando valgono qualcosa, il pubblico lo trovano. Anche più del dovuto, basta pensare a “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino: ululati di entusiasmo critico e premio Oscar (ma quando lo hanno trasmesso in tv gli spettatori abbandonavano a frotte). “The Young Pope” con il suo Papa tabagista è sembrato più interessante di quel che realmente è (ma il genere “Segreti del Vaticano” non trascina solo le vendite del “Codice da Vinci” di Dan Brown). “Gomorra - La serie” ha avuto il suo meritatissimo successo internazionale, di critica e di vendite. Potrebbe essere esportato perfino “Sirene” ora che le piattaforme streaming coltivano le nicchie: ci sarà pure qualcuno che si annoia con la Napoli di Elena Ferrante.
Non si scorgono all’orizzonte altri capolavori misconosciuti. A meno di non voler creare una nuova categoria (quelle di Netflix sono “amore-contrastato a-Bombay-con-lei-architetta”). Vale a dire: “Film italiani senza spettatori in sala”. Per colpa delle “strettoie della distribuzione”, si usa dire. Bugia: hanno trame, attori, registi sotto il minimo sindacale. Dovevano essere soffocati in culla, o almeno irrobustiti, prima di mandarli soli per il mondo. Resta il mistero glorioso: è tutto un lamento perché i soldi scarseggiano – ora un po’ meno, con la nuova legge Franceschini – e si mettono in cantiere film che interessano solo chi li gira.
Prevista una moratoria lunga un anno, per dar tempo di “produrre film che potrebbero reggere il prime time”. In fondo, che ci vuole? Incredibile che nessuno ci abbia pensato prima. E’ risaputo che la produzione cinematografica e televisiva italiana in questi anni ha volutamente scartato decine e decine di geniali e appassionanti sceneggiature per coltivare l’Arte Sublime del Guardarsi l’Ombelico. Ma ora si cambia. L’ha detto Dario Franceschini, già ideatore della “Biblioteca degli Inediti”. Come se la roba edita non fosse già abbastanza brutta.