The Crown. Sbadigli, ahimè

Mariarosa Mancuso

Alcuni registi passano alle serie e le sfiancano solo per pompare un po’ l’ego

Cose che non vorremmo vedere più. Siamo nella Golden Age della serialità, da un paio d’anni si parla addirittura di “Peak Tv” – significa che siamo sulla vetta e dobbiamo aspettarci la discesa, quanto a numero di nuove produzioni, rinnovi di stagione, qualità di scrittura. Il talento non pare estendibile a piacere, bisogna prenderne atto. Funziona così: all’inizio entrano i bravi rimasti bloccati per le barriere d’entrata troppo alte – cose che succedono nello spettacolo anglosassone. Poi tocca aspettare la successiva generazione di giovanotti e giovanotte che trovando tutti i posti occupati tirano fuori idee adatte a sgomitare. Al momento siamo nell’abbondanza, gli sceneggiatori riposano sugli allori.

   

Spiace dover dire che si è impigrito anche Peter Morgan, showrunner di “The Crown” (la seconda stagione su Netflix dall’8 dicembre). Altre dieci puntate, e almeno un altro paio di stagioni sono in arrivo, per raccontare la vita pubblica e privata di Elisabetta II, la sovrana regnante da molto più tempo della Regina Vittoria (molto spettegolate prima per la pruderie e poi per le frequentazioni dello stalliere scozzese e del bell’indiano Abdul). Anche i reali litigano, ma forse la crisi si poteva raccontare in un modo più originale del “dobbiamo parlare, comincia tu, no comincio io che sono la regina” con cui Elisabetta e Filippo si affrontano nel primo episodio. Lui ha viaggiato cinque mesi nei paesi del Commonwealth, più un giretto in Antartide per tenere il pinguino in braccio e mandare il filmino ai bambini a casa. Puntuale arriva il flashback con la scritta “cinque mesi prima”, il dramma coniugale si intreccia con la nazionalizzazione del canale di Suez e altre storie di corna (come se non avessimo capito che il tema suona “ragion di stato, rispetto del sacro vincolo, libertà individuale, che fare?”). Dopo che la matassa è stata dipanata, nell’episodio numero tre – sono passate più di due ore dall’inizio – rivediamo e riascoltiamo per intero il “dobbiamo parlare”. La fanno fuori che Filippo da modesto Duca di Edimburgo viene promosso a Principe, così non si deve inchinare al figlioletto Carlo. Intanto ammiriamo i cappottini con spilla, i cappellini, la bravura di Claire Foy anche quando non ha proprio niente da fare (va sotto il capitolo “solitudine della sovrana”, e l’attenzione si sposta sugli arredi del palazzo).

   

Sembra impossibile che questo Peter Morgan sia lo stesso di “The Audience”, la pièce teatrale che in due ore concentrava le udienze di Elisabetta con i primi ministri britannici che si sono succeduti dal giorno dell’incoronazione: i suoi preferiti Winston Churchill e Harold Wilson, l’odiata Margareth Thatcher. Mancava Tony Blair, a cui era stato dedicato per intero “The Queen” diretto da Stephen Frears (ovvero: come cavarsela quando l’antipatica ex nuora si schianta sotto un ponte parigino). Dicono che il teatro sia lento, e la tv avanzi veloce, perfino più del cinema zavorrato dalla vanità dei registi artisti. Non vale nel caso di “The Crown 2”, e non è la prima volta che succede con Netflix. Partiva lento “The Get Down” di Baz Lurhman sulla nascita dell’hip hop (cancellato dopo la prima stagione). Partiva lento anche “Mindhunter” di David Fincher, che si riscatta quando i serial killer conquistano la scena. E’ come se i registi – in questo caso due che sul grande schermo avevano ritmo – prendano Netflix come una palestra per esercitare il narcisismo. Non ci sono gli indici di ascolto che puniscono, ma gli sbadigli arrivano sicuri. Resistiamo eroicamente, e aspettiamo la prossima novità Hbo.

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