"Canneseries", finalmente le serie tv arrivano al Festival
Non sono considerate arte, eppure adesso hanno un concorso a Cannes, da non perdere
Non le vogliono al Festival di Cannes, a meno che siano firmate da Jane Campion o da David Lynch (l’anno scorso portò tra mille onori l’ultima stagione di “Twin Peaks”, la numero 3, perfetta come salvaschermo: le immagini erano suggestive ma niente succedeva, e se succedeva qualcosa non se ne capiva il senso). Così le serie si sono fatte un festival tutto loro, a immagine e somiglianza del cinema benedetto dal passaggio in sala.
Il primo “Canneseries” si terrà dal 4 all’11 aprile a Cannes, in contemporanea con il MipTv, il mercato audiovisivo che esiste da più di cinquant’anni. Sarà al Palais des Festival sala Lumière – la più grande e più bella della Croisette – con montée des marches, giuria internazionale, cerimonia di premiazione trasmessa su Canal+. Premio per la migliore serie, per la migliore sceneggiatura, per la miglior colonna sonora, per la “performance” e per un’altra performance “speciale” (cosa si intenda esattamente, non lo spiega neppure il sito: probabilmente andranno agli attori).
Ha fermamente voluto Canneseries il sindaco di Cannes, David Lisnard, assieme a Fleur Pellerin, che fu ministro della Cultura e della comunicazione nel governo di Manuel Valls. Il festival è aperto al pubblico, almeno in questa sua prima edizione. Per consolare i cittadini di Cannes del fatto che al Festival del Cinema entrano solo giornalisti e buyer (più qualche biglietto da ritirare al municipio, perché la protesta per il traffico, le strade chiuse, l’affollamento non superino il livello di guardia).
Dieci sono le serie in concorso, e se non sapessimo che sono serie o miniserie, dalle note di presentazione le si potrebbe scambiare per film. “Killing Eve” oppone una funzionaria dei servizi segreti a una serial killer. “Aqui en la tierra” – tra i produttori c’è Gael Garcia Bernal – racconta i crimini e i misfatti di un potente famiglia messicana, mentre un giovanotto di umili origini tenta la sua scalata sociale.
“When Heroes Fly” di Omri Givon batte bandiera israeliana (quindi si candida a diventare un successo internazionale, non sarebbe la prima volta). Ma a differenza di “BeTipul”, che diventò “In Treatment”, e di “Hatufim”, che diventò “Homeland”, non sembra strutturato in modo da poter proseguire dopo una prima stagione. Racconta undici veterani delle Forze speciali che una decina di anni dopo il congedo si ritrovano per l’ultima missione: ritrovare nella giungla colombiana la sorella di uno di loro (che fu la fidanzata di un altro di loro).
Sempre da Israele arriva “Miguel”, la storia di un bambino adottato (a sedici anni se ne vuol tornare in Guatemala, altro disastro da mettere in conto alla “riscoperta delle radici”). “Mother”, che arriva dalla Corea, racconta una storia speculare: una bambina maltrattata in famiglia viene rapita dalla maestra, e se ne vanno on the road. Madre e figlia anche in “The Typist”: una segretaria alla squadra omicidi di Berlino, la figlia è sparita nel nulla, un serial killer si ripresenta. (Per le serie comiche, possiamo solo sperare nella seconda edizione).
Fuori concorso e in apertura, la serie francese “Versailles” (ormai alla terza stagione). Racconta gli anni di Luigi XIV, con abbondanza di nudi a compensare la fedeltà garantita dagli storici. “La verità sul caso Harry Quebert” è invece la serie tratta dal bestseller di Joël Dicker. Dirige Jean-Jacques Annaud del “Nome della rosa”. Lo scrittore protagonista ha la faccia di Patrick Dempsey. In cerca di un maestro, si imbatte in un romanziere che ha uno scheletro (e un manoscritto) sepolti nel giardino di casa.