Primi appuntamenti nelle serie tv
Come in amore, nelle puntate pilota si mostra solo il meglio: #MeToo e inclusività
Gli eletti si sapranno il prossimo maggio, quando i pilot delle nuove serie saranno presentati agli inserzionisti pubblicitari. Sono loro ad avere l’ultima parola, dopo che le reti televisive – non parliamo qui delle piattaforme streaming o dei canali via cavo, funzionano su abbonamento – hanno scartabellato copioni su copioni, mettendo in cantiere il primo episodio delle sceneggiature più ghiotte.
I pilot erano un passaggio obbligato, prima della rivoluzione Netflix e Hulu. Ma capita sempre più spesso che una sceneggiatura particolarmente invitante venga prodotta in modalità “straight-to-series”, direttamente l’intera prima stagione. Hanno iniziato “House of Cards” (parlandone da viva) e “Orange is the New Black”. Le piattaforme streaming non puntano sugli indici di ascolto, hanno un diverso modello di business – non del tutto esplicito, è chiaro soltanto che puntano ad acquisire più prodotto possibile. Oppresso da una lista interminabile di titoli “scelti per te, 98 per cento compatibili”, lo spettatore non dovrebbe avere né il tempo né la voglia di guardarsi in giro.
Per non essere da meno, per sveltire la pratica, per eliminare un grado di giudizio, anche Abc, Cbs, Nbc e Fox hanno cominciato a sperimentare i fidanzamenti senza primi appuntamenti. (Dove, in amore e forse anche nelle serie, ognuno dà il meglio di sé, riservando le magagne per il dopo). Ma i primi appuntamenti resistono: sono settantacinque i pilot in attualmente in lavorazione per l’autunno 2018. Come tutta l’industria dell’audiovisivo made in Usa hanno superato il ciclone molestie solo per affrontarne un altro: l’inclusività.
Dire “quote” pare brutto. Inclusività sarebbe pure peggio ma a farlo notare si rischia la lapidazione. Vuol dire: la conta delle donne e dei neri ai posti di comando. Quest’anno a dirigere i pilot sono state chiamate 19 donne, a fronte di 75 nuove serie. L’anno scorso erano 6 su 70, tutte bianche. Nel 2018 tra le 19 spiccano tre nere e tre latinoamericane. Un netto miglioramento, rispetto alle 42 registe – di cui solo tre nere – registrate nel periodo dal 2013 al 2016.
Su Vulture appare anche lo schemino, con le sagome colorate. Fino al 2017 una si chiamava Shonda Rhimes, regina di Shondaland che si estende da “Grey’s Anatomy” a “Scandal” (l’ultimo episodio della settima stagione è stato girato qualche giorno fa, con i lucciconi agli occhi). Si chiama ancora Shonda Rhimes, ma l’anno scorso è passata a Netflix armi e bagagli – nonché cospicuo assegno. Va detto comunque, se vogliamo celebrare le femmine, che la grande eroina è Patty Jenkins regista di “Wonder Woman”: da sola, con alle spalle un film medio ma d’effetto come “Monster” (anno 2003) ha spaccato vari soffitti di vetro, cominciando da “film di grosso budget” a “film di supereroi”. Nessuno se n’è ricordato agli Oscar. E nessuno ha notato – se invece sono i neri gli esclusi da includere – che “Black Panther”, altro film di supereroi del regista finora indipendente Ryan Coogler, ha fatto più di mille discorsi.
Inclusione dietro la macchina da presa. E inclusione anche davanti alla macchina da presa. Vanno sempre fortissimi il dramma e la commedia – visto il tipo di pubblico, pronto a piangere tutte le sue lacrime su “This is Us” – e sempre più numerosi sono gli attori non bianchi in primo piano. Vince tutti i record “The Finest”, pilot diretto da Regina King. Finora aveva diretto episodi singoli, mai stabilito la linea per una nuova serie. Questa racconta cinque sorelle nere, tutte poliziotte, in forze al New York City Police Department.