Terrore artico

Claustrofobia, gelo, cannibalismo, mostri. C’è tutto quel che serve nelle 10 puntate di “The Terror”

Mariarosa Mancuso

Ci sono serie che mai avremmo immaginato di guardare. Si intende: di guardare anche solo per dieci minuti, in attesa di trovare occupazioni più dilettevoli. Figuriamoci se immaginavamo di prenderci gusto, cercando poi di far proselitismo. E’ accaduto con “Game of Thrones”, nel 2011. C’erano le uova di drago, il mantra “l’inverno sta arrivando”, animali chiamati “metalupi”: da fuggire come la peste, per noi che odiamo il fantasy sopra ogni cosa. In capo alla prima puntata, vista per amore di uno showrunner che si chiamava David Benioff e aveva scritto magnifici romanzi (tra cui “La 25ª ora”, diventato un film di Spike Lee) era chiaro che non si trattava di stucchevole fantasy ma del nerboruto – parlando di scrittura – William Shakespeare.

  

E’ capitato un’altra volta con “The Terror”, serie Amc che vanta tra i suoi produttori Ridley Scott (per gli spettatori non americani, su Amazon). Una storia marinara, di conquiste geografiche e di sopravvivenza, scarsissima di femmine – nell’800 a bordo dei navigli erano segno di sciagura incombente. In materia, avevamo solo un paio di appassionanti esperienze. Il “Moby Dick” di Herman Melville, dove avevamo l’intenzione di saltare un po’ di dettagli sulle balene (sbagliato, sono il vero piacere e la conversione fu immediata). “Master and Commander” di Peter Weir, con Russell Crowe al comando della Surprise, nave britannica che durante le guerre napoleoniche tenta di affondare i corsari francesi della Acheron (già che ci sono, lui e il chirurgo di bordo si fanno un giretto alle Galapagos prima di Darwin).

  

 

“The Terror” – intesa come miniserie di 10 puntate, difficile che riescano a prolungarla, di questi tempi è un ottima notizia – viene da un romanzo di Dan Simmons. Da tempo saldamente nella lista dei nostri guilty pleasure letterari. Nel 1989 aveva scritto “Danza macabra”, immaginando nei campi di concentramento partite a scacchi con pedine umane. Nel 2009 aveva scritto “Drood”, ricamando sull’incidente ferroviario in cui fu coinvolto Charles Dickens (in viaggio clandestino con la sua amante), e sul romanzo incompiuto che appunto si intitola “Il mistero di Erwin Drood” – per godimento sommo, sceglie come narratore Wilkie Collins, amico e rivale del maestro. Nel 2007 scrisse “La scomparsa dell’Erebus” – così il titolo scelto da Mondadori, che ora ristampa le quasi 600 pagine con il titolo originale. In copertina, una nave prigioniera dei ghiacci.

  

Con un equipaggio di 133 uomini e provviste per tre anni, l’Erebus e la Terror salparono dall’Inghilterra per cercare il passaggio a nord ovest, una delle fissazioni geografiche ottocentesche (fissazioni, proprio: come conferma la lettura dell’informatissimo e pettegolo resoconto di Fergus Fleming “I ragazzi di Barrow”, Adelphi). Furono incrociate per l’ultima volta a luglio del 1845, da una flotta di baleniere. Poi più nulla, nonostante le molte spedizioni di soccorso organizzate. Solo qualche anno fa, i relitti sono stati ritrovati e fotografati.

   

 

Fin qui la storia. Dan Simmons ci mette del suo, immaginando che la misteriosa agonia del capitano Franklin e il suo equipaggio sia durata tre anni. Prima scambiandosi inviti a pranzo sulle navi imprigionate dal ghiaccio, con tutta la formalità della marina britannica. Poi mandando scialuppe per cercare una via di fuga nel bianco perfetto della neve. Lo spettatore è subito informato: “Questo posto ci vuole morti”. Follia, claustrofobia, gelo, scorbuto, cannibalismo, mostruose creature: non c’è che da scegliere.

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