L'antidoto alle fake news
Rivalutare la fiction come unica salvezza alla stancante, costante verifica della realtà di internet
La fiction – insomma: roba inventata – ha nei secoli goduto di pessima fama. I romanzi erano considerati poco seri, addirittura dannosi per le menti suggestionabili, donne e fanciulli in prima fila (accadeva molto prima che si stanziassero fondi e si organizzassero manifestazioni per educare i giovani alla lettura). Una storia antica. Già Platone celebrava la realtà, per quanto dura e spiacevole fosse. E invitava gli umani prigionieri nella caverna a non accontentarsi delle ingannevoli ombre che il mondo là fuori proiettava sulle pareti.
Con questi trascorsi, quando troviamo su Wired di giugno un articolo che come antidoto alle fake news consiglia il binge watching (di Netflix in particolare, ma non c’è motivo per non estenderlo ad altri spacciatori di fiction) scatta la curiosità. Parliamo dell’edizione americana, generosa di articoli anche non nerd o tech oriented. Ne ricordiamo uno bellissimo sulle mance e la loro storia: prima di diventare obbligatorie erano considerate dagli americani un vizio europeo.
“Lose yourself in fiction - to see what is fact” sostiene Virginia Heffernan, che nel 2016 aveva pubblicato “Magic and Loss: The Internet as Art” (secondo un recensore, sta a internet come Marshall McLuhan sta alla tv). Perdersi in un racconto inventato aiuta a staccare da un web sempre più complicato e ingannevole. Ultimo rischio pervenuto, i “deepfake”: video manipolati non facili da sbugiardare, dal punto di vista tecnico (serve di più il buon senso, se ancora ne circola: è altamente improbabile un video porno con Michelle Obama). Siccome sospettare di tutto diventa stancante, ci si riposa con la fiction: essendo per definizione inventata, non mette ansia da accertamento.
Internet ha le sue magagne, ma su internet troviamo anche la cura, scrive Mrs Heffernan. Consiglia quindi il distacco da Facebook o da Twitter (di “magico” non hanno più niente, chi li usa lo sa, mentre sul fronte delle “perdite” ognuno tiene il conto delle proprie) da compensare dosi massicce di film e serie. Cose scritte da professionisti, non dall’ex compagno di scuola già antipatico allora, né dal rancoroso senza grammatica.
Anche la fiction può rendere fanatici, lo sappiamo noi che abbiamo letto “Misery” di Stephen King (vale anche il film di Bob Reiner con Kathy Bates). Ma sono eccezioni: di solito i lettori o spettatori chiedono indietro un personaggio con educazione e garbo, oppure rivolgono l’arma contro se stessi, alla maniera di Madame Bovary. Quanto ai dati rubati, possiamo illuderci che Netflix usi i nostri solo per produrre brutti film costruiti come i “cadaveri squisiti” dei surrealisti: ognuno scrive una scena senza preoccuparsi delle altre.
“Broadchurch”, “Luther”, “The Fall”, “Marcella” sono le serie consigliate, tutte british, tutte con investigatori professionisti. Sconsigliabile fare lo stesso con una serie d’avanguardia come “Westworld”, si otterrebbe l’effetto opposto: il tormento su quel che è vero o solo immaginato, su chi è robot e chi creatura umana, su indovinelli etici buttati lì a manciate, non vi lascerà tanto facilmente. Per riposare il cervello, nulla funziona meglio dei detective che decifrano gli indizi, e lavorando da professionisti rimettono a posto il delittuoso disordine.
Altro bel colpo di scena. Non solo Virginia Heffernan su Wired rivaluta la negletta fiction. Celebra come antidoto contro le fake news la fiction meno fantasiosa in circolazione. Le dietrologie e i sospetti hanno stancato. Dentro la caverna di Platone stiamo benissimo.