Una scena della prima puntata di Sharp Objects

Dammi una lametta

Mariarosa Mancuso

In “Sharp Objects” la giornalista che beve e fuma porta inciso sulla pelle tutto il dolore del suo mondo

Non si sa da che parte cominciare, tanto è ricco il pedigree di “Sharp Objects”, la miniserie Hbo che gli spettatori americani stanno vedendo dall’8 luglio e gli spettatori italiani vedranno dal 17 settembre su Sky Atlantic (sfasamento sopportabile, certi film anche importanti e chiacchierati si fanno sospirare più a lungo). Viene da un romanzo di Gillian Flynn, ex critico televisivo di “Entertainment Weekly”. Prima scriveva a tempo perso, quando fu licenziata dal settimanale si prese la rivincita con “Gone Girl – L’amore bugiardo”, bestseller scelto da David Fincher per farne un film di gran successo, con Rosamund Pike e Ben Affleck.

   

Il regista è Jean-Marc Vallée, canadese francofono che si fece notare nel 2005 con un piccolo film intitolato “C.R.A.Z.Y”. Poi arrivò “Dallas Buyers Club” con Matthew McConaughey, contrabbandiere di farmaci contro l’Aids. L’anno scorso, altro botto con la serie di culto “Big Little Lies”, e il suo cast di strepitose attrici: Reese Witherspoon (anche produttrice) e Nicole Kidman (in arrivo la seconda stagione, con un ruolo per Meryl Streep, anche se il primo progetto prevedeva sette episodi e nulla più).

  

Non si è fatto mancare nulla neppure in “Sharp Objects”, che vanta Amy Adams, il nasino all’insù della truffatrice in “American Hustle – L’apparenza inganna” diretto da David O. Russell. E Patricia Clarkson, che qui offre la sua strepitosa interpretazione della gentildonna uscita da una pièce di Tennessee Williams, bicchiere sempre in mano e una vena di follia. Produce Hbo, la sigla via cavo che ha rivoluzionato la televisione con “I Soprano” e “The Wire” e ora si trova a fare i conti con Netflix e con la moltiplicazione delle serie tv. Niente dubbi o tentennamenti sulla linea da adottare, riassunta dal ceo Richard Plepler con poche e precise parole: “More is not better. Only better is better”.

  

“Sulla pelle” è il titolo del romanzo di Gillian Flynn uscito nel 2006, prima del licenziamento (Piemme era l’editore italiano che tempestivamente lo pubblicò, lo ristampa Rizzoli con il titolo della serie e le attrici in copertina). “Nessuno lo voleva”, ricorda la scrittrice con il canino insanguinato di chi alla fine ha trionfato, e viene pagata con il tariffario degli sceneggiatori di successo.

  

Non è altrettanto trionfante Camille, giornalista al St. Louis Chronicle che viene mandata a Wind Gap, Missouri – cittadina inventata ma non per questo meno sinistra – per riferire su un assassino di ragazze. La reporter beve e fuma, dettaglio che nell’America oggi fa subito “disadattata”. Come se non bastasse, a Wind Gap è cresciuta, e da lì è riuscita a fuggire. Da qui la vodka versata nelle bottiglie di Evian, per non dare nell’occhio. Sostiene infatti la megera-madre – una che già all’ora di colazione esibisce ciabattine con il tacco sotto la veste da camera rosa intonata al mezzo pompelmo sul piatto – “quando sei a casa mia tutto ricade su di me, non mettermi di nuovo in imbarazzo” (prima della sfuriata, neanche aveva riconosciuto la figlia: “Spiacente, non facciamo visitare la magione con la torretta a nessuno”).

  

“Vanish” è il titolo del primo episodio, e capiamo perché la vecchia edizione del romanzo aveva una lametta in copertina. Assillata dai ricordi e dagli incubi, Camille ha intagliato sul corpo le propria sofferenze – “vanish” sta sul braccio, lo scopriamo quando entra nella vasca da bagno. Tante sofferenze, oltre alla madre arpia c’è una sorella morta misteriosamente. Il regista, sempre presente e quasi invasivo, sconvolge la cronologia con montaggi disinvolti.

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