“Russian Doll” è “Il giorno della marmotta” in versione Netflix
Otto episodi, venticinque minuti ciascuno, un tour de force per le sceneggiatrici, una punizione per lo spettatore. Da scongiurare una seconda stagione
"Se dovessi progettare l’inferno, lo farei così”. Circa a metà di “Russian Doll”, Nadia dai capelli rossi cerca di dare un senso a quel che le sta capitando. L’avventura inizia in bagno, alla sua festa per i 36 anni. Si guarda allo specchio, fuori bussano, lei esce, scambia un paio di battute con l’amica che ha organizzato il buffet, chiacchiera con gli ospiti, se ne va con il giovanotto appena rimorchiato. Viene investita da una macchina – non ha guardato prima di attraversare. E si ritrova davanti allo specchio del bagno: stessa festa, stessa musica, stesso buffet. Una volta, due volte, tre volte, quattro volte. Cambiano le circostanze della morte – scale, montacarichi, altre automobili, ci sarà poi la fuga di gas. E immancabilmente si ritrova davanti allo specchio.
“Il giorno della marmotta” in versione Netflix conta 8 episodi, 25 minuti ciascuno. Meglio classificabile come miniserie, se non sapesse di vecchia tv. O come lungo film ridotto a spezzoni: non sarà tanto tecnico, e neanche tanto chic, ma coincide con l’esperienza dello spettatore. Vederli tutti di seguito non si configura neanche come binge watching – è quel che abbiamo fatto, per esempio, con “The The End of the F***ing World” di Jonathan Entwhistle, stessa lunghezza e stessa struttura: vuol dire che l’arco drammatico funziona sulla storia intera, la scansione degli episodi è secondaria. Dietro “Russian Doll” (sta per “matrioska”) troviamo un gruppo agguerrito di sceneggiatrici: Leslye Hedland (aveva scritto e diretto “The Wedding Party”), Amy Poehler (aveva fatto coppia con Tina Fey al Saturday Night Live) e Natascha Lyonne, che ha tenuto per sé la parte di Nadia.
Il format tiene la fine abbastanza vicina all’inizio (il lavoro di chi racconta storie, spiega Nick Hornby, sta nel “tenere la fine lontana dall’inizio”, non vale solo per i romanzieri). Quindi abbiamo la curiosità di sapere come va a finire. Insomma, cosa ha provocato “le mille e una morte” di Nadia, per citare un racconto di Jack London intitolato appunto “Le mille e una morte”. Un giovanotto sul punto di annegare – “poi fu il vuoto” – si sveglia a bordo di una nave. Lo hanno fatto tornare in vita allo scopo di ucciderlo tante altre volte. Il capitano nella nave (che poi scopriamo essere suo padre) ha inventato un marchingegno per risuscitare i morti, e non vede l’ora di sperimentarlo. Ma gli servono morti di giornata, al massimo tenuti in ghiacciaia per qualche ora: il poveretto viene costretto a fare avanti e indietro sul confine tra la morte e la vita. Avvelenato, strangolato, asfissiato, steso con troppa morfina o abbattuto con una scarica elettrica.
La curiosità per quel che succede a Nadia – che tra una morte e l’altra sperimenta vite parallele, ricombinate partendo da elementi che conosciamo – aumenta quando accanto a lei compare Alan. Il riconoscimento avviene in ascensore, la cabina precipita, tutti urlano e si sdraiano per ammortizzare l’urto. Loro due restano in piedi. “Non hai paura di morire?” chiede Nadia. “Mi succede di continuo”, risponde Alan. “Anche a me”. Insieme, cercano di uscire dal loop temporale (forse un bug di progettazione, suggerisce lei che traffica con i videogiochi).
Non vale svelare cosa succede, se e come riusciranno a cavarsela. Però qualcosa si può dire, anche per scongiurare una seconda stagione: a occhio, un tour de force per le sceneggiatrici, una punizione per lo spettatore. Il finale non è all’altezza dell’inizio, né per trama né per scrittura. Nadia sprizza scintille, Alan fatica a bucare lo schermo.