Falsa bandiera
Gli israeliani sanno girare ottime serie spendendo poco. “False Flag” ne è l’esempio (e dà dipendenza)
Le prime serie israeliane che hanno allietato la vita di noi spettatori passavano attraverso gli Stati Uniti. “Be Tipul” è diventata “In Treatment”, prodotta per la Hbo da Rodrigo García, figlio di Gabriel García Márquez – da Macondo allo strizzacervelli c’è un bel passo, resta il gusto per il racconto.
“Hatufim” è diventata “Homeland-Caccia alla spia” con Claire Danes e Damien Lewis: il suo personaggio di prigioniero liberato, e forse con il cervello lavato, prende il posto dei due militari nella serie originale, che si è fermata a due stagioni (mentre gli americani sono alla settima, e girano un po’ a vuoto). Poi abbiamo visto “Fauda”, rilanciata da Netflix (nella smania di diversificare, per non lasciare un solo spettatore scontento, hanno appena lanciato “Jinn”: liceali in gita a Petra, spirito maligno tra le rovine). Ormai eravamo maturi, non c’era bisogno del remake. Grosso vantaggio: gli israeliani sanno girare ottime serie spendendo cifre ragionevoli.
“False Flag” era andata in onda nel 2015: lo stesso anno fu presentata alla Berlinale, nella sezione “Serie tv”. Acquisiti da Fox International, con lancio in 127 paesi, gli otto episodi della prima stagione sono arrivati sugli schermi italiani nel 2017. Dal 21 maggio Fox trasmette i nove episodi della seconda stagione, visti dagli spettatori israeliani nel 2018. Beate le serie che tra una stagione e l’altra danno il tempo agli sceneggiatori di ricaricare le pile.
“False Flag” indica le operazioni compiute sotto falsa bandiera, per far ricadere la colpa su altri stati o gruppi. Non sempre sono specchiate, ma siccome abbiamo superato gli anni dell’asilo sappiamo che la politica e i servizi segreti funzionano così. La prima stagione inizia con l’omicidio, in un albergo di Mosca, del ministro iraniano della Difesa.
“Un lavoro pulito, si vede che non l’hanno fatto gli americani”. E’ la prima (e unica) certezza. Sul posto gli investigatori trovano cinque passaporti israeliani: prima che anche uno soltanto di loro faccia in tempo a dire “privacy”, i nomi e gli identikit sono resi di pubblico dominio. Un chimico, un’inglesina che dà lezioni private, una ragazza alla vigilia del matrimonio, una maestra, uno hippie che sfugge alla cattura.
Lo Shin Bet indaga, e anche il Mossad. Gli interrogati si dichiarano estranei alla faccenda. Anche la ragazza con l’abito da sposa che sulla strada verso l’altare – letteralmente, sono in macchina – dichiara al promesso che mai si sposerà con il rossetto sbagliato, vuole passare da casa per cambiarlo. Lì prende dal cassetto un paio di passaporti e li fa maciullare dal trita-documenti. Anche i familiari cominciano a guardare i sospettati con occhi diversi: c’è il fascino della doppia vita, l’incubo di chi si chiede “con chi ho dormito in tutti questi anni?”, il brivido di chi sospetta “e se li avessero incastrati?”. Ognuno da solo basterebbe, insieme non lasciano scampo: “False Flag” dà dipendenza.
Dietro la serie troviamo due donne, la produttrice Maria Feldman e la sceneggiatrice Leora Kamenetzky, già sottoposte alle domande cretine del caso: “Perché lo spionaggio e i servizi segreti?” (sottinteso: tornate a occuparvi di fidanzamenti, tuttalpiù di corna). Astutamente, scelgono per la stagione storie che si chiudono. Nella seconda stagione salta in aria un oleodotto tra Israele e la Turchia. Spariscono tre cittadini israeliani che erano sulla piattaforma. Le indagini partono dai familiari – magari non hanno una doppia vita, ma qualche segreto di famiglia sempre salta fuori.