Intrighi di famiglia
“Succession” è la storia di un impero da dividere. E c’è chi dice che si ispiri a Murdoch o a Trump
Tornavamo dai festival cinematografici e non vedevamo l’ora di consolarci con le serie. Un meritato riposo dopo tanti film a misura di critico odoroso di naftalina – il tipo che se durante la proiezione gli scappa una risata, o vede un’attrice con più di due espressioni, o trova tracce impercettibili di trama, pensa che gli yankee stiano tramando per rendere gli spettatori più stupidi. Altro che l’acqua contaminata con il fluoro di cui si chiacchiera nel “Dottor Stranamore” di Stanley Kubrick: “Ha mai visto un comunista bere acqua? loro bevono vodka, chiediamoci perché” (incredibile ma vero, lo registriamo anche se non c’entra con le serie: lo spezzone viene esibito come prova da chi crede – oggi, 2019 – che il fluoro non faccia bene ai denti ma alle dittature, “indebolisce la nostra “ghiandola pineale”).
Non più. Da quando i festival premiano film che non prendono a cazzotti lo spettatore, torniamo a casa e serve tempo per scegliere una serie che non deluda. L’offerta cresce, lo spettatore ha l’impressione di farsi strada nella giungla, perché nel frattempo le serie hanno preso i vizi del cinema d’autore. Cominciano lente: nessuno più sulle piattaforme streaming conta i tempi parziali, vale a dire gli ascolti dopo ogni puntata. Si contentano di stare dentro una nicchia. Cercano di non urtare i sensibili e rispettano le minoranze.
Dal punto di vista narrativo, la via maestra verso il disastro. Per fortuna qualcuno resiste, per esempio Jesse Armstrong, showrunner di “Succession” (la seconda stagione dal 9 ottobre su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv, la prima stagione – se l’avete persa – è su Sky On Demand). Inglese nato nello Shropshire, ha ben presente William Shakespeare. Riparte da “Re Lear” adattato ai tempi nostri: una famiglia di cui vediamo nei titoli di testa i filmini delle vacanze, un patriarca che ha superato gli ottant’anni e non sta granché bene, un impero mediatico da dividere tra i figli maschi e la figlia femmina.
Tutti hanno pensato ai Murdoch, lo showrunner ha subito smentito. Per orgoglio professionale, fa parte del mestiere creare intrighi, tradimenti, colpi bassi, voltafaccia, alterne fortune, scalate ostili, accordi capestro. Semmai succede il contrario. Fa notare il New Yorker, in un articolo dedicato all’abbigliamento dei personaggi, che Ivanka Trump (la seconda famiglia che i maligni sostengono abbia fatto da modello) ha da poco adottato il caschetto squadrato di Shiv. La figlia nella prima stagione aveva i capelli rossi a onde, e ora che deve vedersela con il fratello subdolo e il fratello squalo si pettina da guerriera. Il fratello squalo – sempre fuori fase, quando si allea con i nemici del padre e quando si veste per uccidere – sfoggia le sneaker Lanvin da 500 dollari a un incontro con una start-up, e i giovani idealisti sdegnati rifiutano di farsi finanziare da lui.
Non faremo torto a nessuno raccontando la trama. Bastano i dettagli: il patriarca Roy ordina di staccare la spina ad Alexa, l’assistente vocale (“Già mi spiano tutti, di Bezos faccio volentieri a meno”). Nella villa riaperta togliendo i lenzuoli dai mobili c’è una puzza tremenda che non va via: colpa dei procioni in decomposizione nel camino, vendetta di un lavoratore pagato troppo poco. Un incidente di macchina ricorda “Il falò della vanità” di Tom Wolfe. Il vecchio genitore pone il dilemma: vendere adesso o rischiare il fallimento in un mondo tecnologico e mediatico difficile da immaginare da qui a 5 anni? Per far capire la posta in gioco, ricorda: “Potremmo far la fine della Kodak”.