L'occasione di vincere e il mostro che forse mostro non è
Storia di Rosita, di un paesino vicino Caserta
“Sono di un piccolo paese vicino Caserta”, sospiro. Che è una definizione riduttiva. Non è solo piccolo, e comunque non è quello il problema. E’ un piccolo, triste, malinconico paese, che solo a pensarci mi scatena un attacco d’ansia, forse perché incombe sul mio futuro come una galera. Se le cose continueranno ad andare male non avrò alternativa se non tornare in quel buco soffocante da cui sono evasa a stento.
Emanuela Canepa, “L’animale femmina” (Einaudi stile libero)
Rosita Mulè è una brava ragazza, perfino troppo brava e seria, è andata via da quel paesino triste in cui si sentiva prigioniera di sua madre e dell’esistenza, studia Medicina a Padova, è fuori corso, dimostra sedici anni e lavora in un supermercato per mantenersi, divide un appartamento con altre due ragazze e ha un debito di centocinquanta euro per la caldaia che si è rotta. Non è allegra, non è spensierata, è timida e preferisce nascondersi, non pensa ai vestiti, non pensa a divertirsi, forse è innamorata di un uomo ma sta dentro un vicolo cieco. E’ una vittima perfetta, predestinata, classica. Invece no, per fortuna narrativa e umana Rosita Mulè non è affatto una vittima. Anzi, prende forza dal tentativo di chi le sta intorno di ridurla a qualcosa di ubbidiente e manipolabile. E’ questo il nucleo del romanzo di Emanuela Canepa, bibliotecaria cinquantenne che ha vinto il Premio Calvino riservato agli esordienti con una storia di tentato plagio, di conflitto uomo/donna e di ribellione sempre meno silenziosa. Ma Rosita deve soprattutto, e prima di ogni altra cosa, ribellarsi a sua madre che la vorrebbe accanto nel paese a stirare ossessivamente, a enumerare disgrazie e risonanze magnetiche, a sposarsi con un ragazzo del posto, a fare il giro delle zie per Natale. Senza allegria, senza una capacità di distacco dal ruolo antico e mortificato di una donna di provincia del secolo scorso. Da questa cupezza Rosita è scappata: però questa cupezza la porta dentro.
Non è ingenua, è come se fosse già disillusa, non ha i pensieri di una ventenne che scopre il mondo, è piena di sfiducia però anche di ostinazione. Ha paura di riconoscere la fortuna quando arriva, di accettare il lavoro che le offre un avvocato anziano ed elegante: il lavoro che le permette di lasciare quel supermercato gelido, di pagare il debito, di ricominciare a frequentare le lezioni all’università e forse di rimettersi in pari con gli esami.
A questo punto, come in tutte le storie di orchi, l’avvocato benefattore dovrebbe rivelarsi un mostro cattivo. Chi leggerà questo libro avvincente e anche disturbante, deciderà se si tratta davvero di un mostro, di un carnefice che si nutre di vittime.
Io posso dire quello che ho provato leggendo: la voglia di dire a Rosita che non si deve vergognare di truccarsi, che ricevere gli sguardi di un uomo non significa essersi trasformata in una puttana, che proprio lei che ha avuto il coraggio di andarsene dal paese vicino Caserta ha il compito di usare questo coraggio per liberarsi, per aprirsi al mondo. E il motivo per cui ho avuto anche antipatia per Rosita, che giudica troppo, è che è un personaggio molto vivo, un personaggio che cambia e che cresce, e che abbandona a poco a poco il punto di vista del perdente. Ci sono pagine che non racconterò, in cui Rosita viene aggredita dalla moglie di un uomo che ha amato. E in quelle pagine c’è il cambiamento di Rosita. Mentre l’avvocato, il cattivo, il mostro, non è un mostro. E’ disilluso, è infelice, è sconfitto dalla vita, ma dà a Rosita la possibilità di diventare se stessa per contrarietà, per opposizione. Le offre la grande occasione di vincere.