Dopo la rottamazione c'è la restaurazione. Il fallimento, un esempio
Chi ha scritto a Claudio Cerasa giovedì 15 dicembre
Al direttore - En attendent Godot (la Consulta): volevano difendere la Repubblica parlamentare e si ritroveranno con una Repubblica giudiziaria. Dobbiamo rassegnarci: in Italia “la politica è l’arte di cercare guai, di trovarli sempre e dovunque, di farne una diagnosi inesatta e di applicare i rimedi sbagliati” (Groucho Marx).
Michele Magno
La Consulta, dopo aver imposto la nascita di un governo che semplicemente non doveva nascere, riscriverà la legge elettorale dopo aver già riscritto la riforma della Pubblica amministrazione. La Cassazione riscriverà la riforma delle banche popolari. Un referendum proverà ad abbattere la rimozione dell’articolo 18 e a riscrivere il Jobs Act e non fatichiamo a immaginare che in questa campagna referendaria la magistratura sia ancora una volta in campo. D’altronde, dopo l’epoca della rottamazione non si poteva che passare velocemente all’epoca della restaurazione. Facciamo nostro Nanni Moretti: continuiamo così, facciamoci del male.
Al direttore - Ho visto “Politics”, su Rai3, e credo che la rete abbia fatto bene a chiudere il programma: non funzionava, giusto così. Mi chiedo se questa sia la fine dei talk-show o se in futuro possiamo aspettarci qualcosa di nuovo. Che dice?
Marco Martini
Per come sono fatti oggi, i talk non identitari non possono avere futuro. Chi guarda un programma televisivo non vuole solo una tribuna ma vuole un’opinione, vuole una linea, vuole incazzarsi, e se un talk non ti fa incazzare, sulle idee, è un talk che funziona poco. Ho visto il discorso di saluto di Gianluca Semprini e c’è un dettaglio che mi ha colpito. Semprini, involontariamente, ha fatto un buon servizio pubblico sdoganando in diretta tv un tabù del nostro paese: il concetto del fallimento. Probabilmente non era questo l’obiettivo di Semprini ma in un certo modo, ammettendo il fallimento, ci ha ricordato a tutti una differenza sottile ma importante tra un sistema economico che funziona e uno che funziona meno. I paesi come l’America, dove il fallimento è un diritto giuridico e anche un diritto morale, fallire in un’impresa è una macchia ma non è una colpa: è parte di un processo. In Italia, dove il fallimento è un’onta, i fallimenti non si ammettono mai e quando si ammettono lo si fa solo per scaricare su qualcuno le responsabilità. In America, lo sdoganamento del fallimento è uno degli architravi del sistema economico. In Italia, il tabù del fallimento è uno dei tanti fattori che ostacolano la crescita del paese. Diceva Samuel Beckett: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”. Diceva bene.
Al direttore - Con riferimento alla genesi degli equivoci circa la fantomatica elezione diretta del presidente del Consiglio di cui scrive sul Tuo giornale l’ottimo Bordin, viene il dubbio che la scarsa precisione nel riportare questioni di natura tecnica da parte di molti cronisti abbia contribuito all’induzione in errore di tante persone. Ne è riprova il fatto che ancora oggi sia possibile, anche su un pregevole quotidiano come questo, scrivere con noncuranza inesattezze come “il presidente Ciampi consentì che il nome del candidato premier fosse obbligatoriamente inserito nei simboli dei partiti che formavano le coalizioni” quando niente di tutto questo è mai accaduto: la legge in questione prevedeva infatti il solo deposito del programma elettorale e del nome del capo della coalizione restando “ferme le prerogative spettanti al presidente della Repubblica”. Nessun obbligo di indicazione sui simboli né sulla scheda e ferma la possibilità che, a seconda delle circostanze (dimissioni, crisi di maggioranza o altro), il presidente della Repubblica potesse proporre al Parlamento, per la carica di presidente del Consiglio, figure diverse da quella indicata in sede di deposito delle liste. Tanto più che il deposito del nome del capo della coalizione avveniva insieme con il programma elettorale che nessuno, per fortuna, si è mai avventurato a ritenere strettamente vincolante per la coalizione ma soggetto, com’è ovvio, alla libertà del mandato dei parlamentari eletti e alla mutabilità delle condizioni economiche, politiche e sociali. La forzatura, e su questo ha ragione Bordin, derivava probabilmente dall’estrema personalizzazione della politica introdotta dal Cav. secondo cui oltre a lui (quantomeno nella sua metà di mondo) nulla poteva esistere mai: pertanto ogni scelta diversa da se stesso era un tradimento non del capo, ma della volontà popolare e del voto. Questa visione non appartiene a nessun sistema parlamentare, nemmeno alla maggioritaria Inghilterra dove tutti i premier eletti degli ultimi 30 anni (Thatcher, Blair, Cameron) sono stati sostituiti in corsa da altrettanti premier (Major, Brown, May) senza che la cosa abbia mai suscitato particolari disturbi o rimostranze come, invece, accade oggi in Italia.
Luca de Vecchi