Pensarci due volte prima di mettere nel mirino chi riforma il lavoro
Al direttore - No al concerto del mattone.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Tutto bene, comunque i genitori dell’avvocato Venerando Monello dovevano essere un po’ burloni. Buon lavoro.
Margherita Boniver
(Gran cognome)
Al direttore - Le confesso che faccio fatica a capire come sia possibile che in Italia le gaffe dei politici diventino dei casi politici. Il ministro Poletti ha detto una stupidaggine. Ok. Ma se il criterio da utilizzare per giudicare i politici deve essere quello della correttezza e scorrettezza delle dichiarazioni, non crede che il Parlamento oggi sarebbe più o meno vuoto?
Luca Martino
“Se 100 mila giovani se ne sono andati non è che qui sono rimasti 60 milioni di pistola. Ci sono persone andate via e che è bene che stiano dove sono perché questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. “Mi sono espresso male, penso semplicemente che non è giusto affermare che ad andarsene siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri”. Se stessimo parlando soltanto di una gaffe il discorso sarebbe già finito: Poletti ha detto una cosa giusta accanto a una sbagliata, si è scusato e la storia dovrebbe essersi conclusa così. Se la polemica fosse sulla gaffe, la polemica sarebbe finita. Ma la storia di Poletti non riguarda quello che ha detto ma un’operazione precisa di cui lui stesso è il simbolo e in cui la distruzione del ministro del Lavoro è un costo marginale di una battaglia più grande: la delegittimazione di colui che rappresenta plasticamente una sinistra che ha accettato di riformare il mercato del lavoro come nessuna sinistra aveva fatto prima d’ora. Non si capisce la violenza contro Poletti se non si parte da questo e se non si uniscono i puntini: il referendum sull’articolo 18, la sinistra del Pd (che non si capisce che cosa ci stia a fare nel Pd se tutte le riforme volute dal leader del Pd diventano riforme che devono essere abbattute) che minaccia di votare la sfiducia al suo ministro del Lavoro qualora il ministro del Lavoro non dovesse dare un “segnale” per superare un simbolo della flessibilità del Lavoro: i voucher (senza i quali rimarrebbero i lavori che vengono pagati attraverso questo sistema, solo che diventerebbero lavoro nero, non lavoro vero). Il processo di delegittimazione del ministro che ha riformato il lavoro ha coinvolto anche suo figlio Manuel, direttore di un giornale che riceve un finanziamento pubblico dal 2013, ovvero quando il ministro Poletti non aveva nulla a che fare con la politica (è la post verità, bellezza). Ieri il figlio del ministro ha presentato una denuncia ai carabinieri di Faenza “a seguito di pesanti offese ed alcune minacce di morte giunte tramite social network e via mail contro la mia persona e l’azienda che rappresento”. Non stentiamo a crederlo. Quando un cognome diventa il simbolo di una riforma del lavoro, in Italia, la delegittimazione arriva fin dove non dovrebbe arrivare. Diventa una gogna. E i cognomi dei riformatori di solito diventano dei simboli da abbattere. Criticare sì, far diventare un bersaglio qualcuno, e metterlo nel mirino, no. Occhio.