Roma scopre la foto di devasto. Riflessione sul suicidio di Lavagna

Al direttore - Sette nuovi pianeti come la Terra. Non stiamo esagerando con il proporzionale?

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Può un governo degno di questo nome permettere che una categoria scioperi contro e al di fuori di ogni regola? Può un ministro degno di questo nome dialogare con una categoria che, dopo aver messo a ferro e fuoco il centro di Roma, assedia la sede del suo dicastero durante la trattativa? A mio avviso non possono. Mi dispiace per Paolo Gentiloni e Graziano Delrio, ma non hanno fatto una bella figura. Cedendo alla violenza dei tassisti e dei loro soci, si sono dimostrati deboli e ricattabili. Se avessero avuto la schiena dritta, avrebbero dovuto subordinare l’avvio del confronto alla cessazione immediata di forme di lotta che hanno messo in ginocchio i cittadini. Risultato: i cialtroni che hanno cavalcato la protesta incassano un dividendo sociale, il governo una minusvalenza politica. Perché in questi giorni non c’era soltanto in ballo la liberalizzazione di un servizio pubblico, ma una prova di forza tra l’interesse generale del paese e un interesse corporativo. Alla faccia delle chiacchiere sul riformismo, il mercato, la concorrenza, il merito. Bersani e compagnia cantando se ne vanno (era ora), ma il Pd non rinuncia a farsi male da solo.

Michele Magno


Può anche darsi, come sostiene il governo, che l’accordo firmato martedì sera sia stato fatto non con le sigle che hanno indetto le proteste ma con quelle che venivano a loro volta contestate dalla folla. E può anche darsi che l’accordo preveda un’accelerazione nella direzione già decisa, “con una normativa seria e moderna di settore”. Resta il fatto che siglare un accordo che favorisce anche chi ha messo a ferro e fuoco la città contribuisce a far passare un messaggio pericoloso: regalare una vittoria a chi urla di più. Quella vista martedì a Roma, l’allegra combriccola formata da tassisti facinorosi, Movimento 5 stelle, Lega, Sinistra italiana, pezzi di Forza Italia, era la classica foto di devasto. E contro quella foto – Renzi non poteva scegliere un momento peggiore per andarsene in America – l’Italia che sogna un paese riformista, dove la concorrenza migliora le vite dei suoi cittadini, non ha fatto sentire la sua voce. Ancora una volta.

 


 

Al direttore - Sono molto perplessa, a disagio di fronte a queste parole della madre, sicure immediate. In cui sembra che ci sia solo il “giudizio”. E il dolore? La ferita? Sto parlando del fatto di Lavagna, giorni fa, e delle parole della madre del ragazzo che si è suicidato durante una perquisizione in casa. Risuonano in me due ricordi: le parole di Flannery O’Connor in una sua lettera, sull’episodio di Abramo e Isacco. A tema è la nostra fede, lei si chiede se noi abbiamo la certezza in tasca (è una sintesi mia) o “se abbiamo tremato con Abramo”. L’altro è di Giovanni Testori: nella sua prima vita furibonda, totale, la casa, la madre erano per lui il punto di certezza assoluta. Di accoglienza, bene gratuito, così com’era. Per come era lui, Giovanni.

Questo ragazzo di Lavagna era adottato. Le statistiche dicono che le storie di questi ragazzi sono complesse, anche quando l’adozione è un porto sicuro dopo tante mancanze e sofferenze. Ma ciò che si patisce nei primi cinque anni di vita (non lo dico io, è certo) segna per sempre. E crescendo tutto viene a galla. Certo le ferite – meno male – si rimarginano. Ma a “sistemare” non sono mai ricette, calcoli, progetti. C’è la fatica quotidiana di un rapporto che le cerca tutte, si dà da fare per… Come di certo avranno fatto anche quei genitori. Con, ultima, la richiesta di un intervento esterno forte. Che non avrebbe avuto conseguenze penali: una “ramanzina”, fortemente simbolica. Ma per un giovane, per un ragazzo, quello che non può mai venir meno è l’affermazione assoluta che un genitore c’è sempre. Ecco: tra questa tragedia e quelle parole c’è troppa distanza, manca (non la vedo io) la ferita. Non giudico, annoto il mio disagio di fronte a quelle parole che assomigliano a una giustificazione. Poi c’è quel giovane, innocente, come lo si è a quella età – ricordo il titolo del libro di don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile di Milano: “Non esistono ragazzi cattivi”. Dietro ogni ragazzo difficile c’è un buon motivo. Come si sarà sentito lui? Cosa avrà provato? Vergogna? Forse. Rabbia? Delusione? Era adottato, e aveva perso tutto. Definitivamente.

So di due genitori che per uno dei loro quattro figli sono arrivati a contattare le forze dell’ordine. Con prudenza e saggezza. Ogni storia fa testo a sé, e davvero noi non sappiamo niente. E non sappiamo cosa c’è nel cuore dell’uomo, di quella mamma, di quei genitori… Però viviamo, proviamo le fatiche, l’impotenza che a volte si sperimenta nel rapporto con i figli, con i nostri studenti (sono insegnante). Mi sono permessa di scrivere queste righe perché quelle parole sono state dette, pronunciate. Scatenando la ridda dei “ha fatto bene la mamma”, o la condanna di figli: “Ha fatto bene il ragazzo, così li ha puniti per sempre”. E sono queste le parole che dicono di un’ultima, drammaticamente affermata, speranza che è tremendo e terribile uccidere.

Emilia Ramundo

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