Il traffico di influenze, ultimo schiaffo al modello Montesquieu
Al direttore - Il reato di traffico di influenze serve ad abbassare la soglia della prova e aumentare la discrezionalità dei magistrati. L’accusa è difficilmente dimostrabile ma nello stesso tempo non è facile difendersi. Comunque serve a sputtanare gli indagati. Ovvio il reato è stato introdotto dal legislatore, cioè dalla politica che ha fatto il solito autogol. Come quando nel 1993 venne abolita l’immunità sotto la forma dell’autorizzazione a procedere.
Frank Cimini
A venticinque anni da Tangentopoli, se possibile, la situazione è ancora più grave: la politica teme la magistratura e invece di provare a riequilibrarla offre ai magistrati nuovi e folli reati che moltiplicano il potere della magistratura. Povero Montesquieu. Poveri noi.
Al direttore - Ma una T scarabocchiata su di un pizzino sdrucito non potrebbe essere l’iniziale di un cognome o di un nome di donna? Gli inquirenti hanno scartato queste ipotesi. “Nessuno – si sono detti – darebbe una mazzetta tanto robusta ad una persona senza avere la confidenza di chiamarla per nome”. Quanto al caso di una donna, hanno convenuto che soltanto Silvio Berlusconi potrebbe corrispondere la bellezza di 30 mila euro al mese a una signora, ma per traffici diversi dalle influenze. Come sono arrivati, allora, i magistrati a ritenere che la T si riferisse a Tiziano? Semplice. Chi mai potrebbe chiamarsi, oggi, Tarcisio, Teodoro, Tertulliano, Temistocle, Tancredi o quant’altro di così antico e démodé? Un dubbio era venuto su Tommaso. Ma lo hanno scartato quando si sono accorti che nessuno nel Giglio magico si chiamava così.
Giuliano Cazzola
Al direttore - E’ sempre così. Per affossare un esponente politico, tutto fa brodo. Tiziano Renzi, indagato per traffico di influenze nell’ambito dell’inchiesta Consip, è un piatto prelibato per gli avversari dell’ex premier, Matteo Renzi. Screditare è il mestiere più antico del mondo, insieme con la prostituzione. Non importa se non ci sono certezze scientifiche che avvalorino una sorta di staffetta avversa tra padre e figli. Se il padre è un ladro, pure il figlio ruberà. Se il padre è un mostro, pure il figlio sarà un obbrobrio. Oppure, se il padre è un genio, pure il figlio avrà un incredibile ingegno. Non appena la cronaca fornisce elementi per poter disonorare un avversario (non è detto che sia sempre politico), giù commenti graffianti. Di solito, molte persone abboccano. Dicono: se stampa e tivù se ne occupano, qualcosa di vero c’è. Un semplice teorema popolare che può fare illustri vittime.
Fabio Sicari
Al direttore - Purtroppo, caro Cerasa, troppo pochi italiani leggeranno il saggio di Giavazzi e Barbieri e troppi continueranno a seguire i talk-show televisivi, improntati al populismo e al giustizialismo, condotti da implacabili Javert nostrani. Si continuerà a ritenere l’euro causa di tutti i mali sottovalutando, ad esempio, gli eccessi della burocrazia che disincentiva gli investimenti nel nostro paese o il nanismo delle nostre aziende. Nonostante tutto l’Italia, anche se di poco, cresce, rendendo meno assordanti le lagne di coloro che invocano la decrescita felice.
Lorenzo Lodigiani
Al direttore - Assertivamente: la vittoria della cultura del sospetto, coincide con la disfatta dello stato di diritto. Infatti quello del “sospetto” è solo uno squallido strumento di un mestiere che equivale a quello dello spacciatore di droga. Il fine è identico: guadagnare, conservare e accrescere la platea dei clienti intossicati, cioè: the business are business. Logico, prosaico, comprensibile. Quando però diventa metodo quotidiano, abituale, nello svolgersi della contesa politica, dal business si passa alla patologia. Devastante per la convivenza civile per l’anomala commistione tra “funzioni” dello stato e mondo dell’informazione. Miracoli della tecnologia e del progresso hanno creato un nuovo tipo umano: il sospettofago. A quando “La legge dei sospetti”?
Moreno Lupi