Il nuovo senso comune che prescinde da un dato importante: i figli
Al direttore - Dice Giuliano Ferrara, nel suo articolo di ieri sulla commemorazione del poliziotto gay Xavier Jugelé, che “La ‘gay culture’ martedì 25 aprile, alla Préfecture de Paris, ha celebrato con questo tono e con questa maestosa semplicità il suo riconoscimento collettivo più alto in grado dopo essere diventata senso comune”. E’ vero, la gay culture è diventata senso comune. Al punto da oscurare un altro fenomeno, di gran lunga più importante quantitativamente non meno che qualitativamente, e che fa sentire i suoi effetti cento volte di più della gay culture, anche se non appare così caratterizzante dei tempi che stiamo vivendo come la gay culture. Parlo non già delle coppie, etero e omosessuali, ma di quanti vivono una vita da soli, di quanti si giocano la vita in solitario, decidendo – attenzione – in piena coscienza e consapevolezza questa strada, non costretti dalle circostanze o dall’indigenza ma spinti dalla possibilità e la voglia, lo spirito animale, di cercare la soddisfazione e la realizzazione, nel mondo e nella vita, nel lavoro e nella società, del proprio “io”, di nient’altri che di se stessi. C’è una sola tipologia di famiglia, in Italia, che cresce: quella unipersonale, costituita da una sola persona. Più di otto milioni di persone vivono da sole, e rappresentano il 32 per cento delle famiglie italiane. Diminuiscono indiscriminatamente tutte le altre tipologie di famiglia secondo il numero dei componenti. Diminuiscono le coppie. Aumentano le famiglie monogenitoriali, ma il loro aumento riposa proprio sul fallimento della coppia. Il 40 per cento delle famiglie unipersonali è rappresentato da persone mai sposate. Tra i 25 e i 44 anni, l’età produttiva e riproduttiva per eccellenza, i celibi/nubili battono i coniugati per 7,8 milioni a 7,5. Il distacco è misurato, il ribaltamento è stato insieme veloce ed epocale. E’ il nord il grande serbatoio dei single, sono le grandi città del centro-nord gli ambienti in cui germoglia rigogliosamente la pianta del vivere da soli. A Milano, che di questo vivere è la capitale, ci sono oltre 300 mila famiglie unipersonali, rappresentano il 46 per cento delle famiglie. La loro crescita è trainata dai celibi e dalle nubili, non dai divorziati/e, non dai vedovi/e.
Numeri come questi sono la risultante, nell’occidente avanzato e postmoderno, di uno slittamento molto accentuato dalla famiglia al singolo, dall’organizzazione comunitaria, sia pure di livello cellulare, a una organizzazione sempre più centrata sulla “singolarità”. La famiglia è stata spesso accusata di essere per i suoi componenti una sede di egoismo. Ma l’egoismo familistico, per riunire generi e generazioni, e dunque aspirazioni e bisogni diversi tra di loro, è a suo modo un egoismo di gruppo e di comunità – pur se intesi al livello più basso, cellulare. Col declino della famiglia quell’egoismo si concentra sull’“io”, caricandosi di prospettive legate in modo particolarissimo alla durata e alla qualità della propria personale esistenza. Perché è andata così? In questo mezzo secolo tre sono stati i tratti caratterizzanti l’organizzazione e gli assetti strutturali di società come quella italiana: (a) il grande aumento della loro complessità (b) il parallelo aumento dei diritti e delle libertà individuali e (c) quello meno lineare, ma tendenzialmente innegabile, della crescita delle opportunità di affermazione personale nel mondo del lavoro, nelle professioni, nel fare impresa.
La vita da soli, senza famiglia, senza legami istituzionalizzati, senza figli, offre dunque possibilità più alte per riuscire a muoversi, e avere successo, nelle nostre società odierne caratterizzate dalla triade complessità-diritti-opportunità? E la società, complessivamente considerata, trae beneficio dal fatto che sempre più persone prendono questa strada? L’analisi porta a dare risposte positive a entrambe le domande. Ma proprio per questo ciascuno è in grado di intuire i rischi, per la vitalità stessa della società, che potrebbe comportare una tendenza alla vita da soli che agisse senza trovare correttivi e contrappesi di sorta. Crollo ulteriore delle nascite, scarsa coesione sociale, crisi della rappresentanza politica e delle sue forme: sono, queste, le più chiare emergenze che si stanno del resto già delineando.
Riusciremo a inventarci qualcosa capace di tenere assieme l’aspirazione di tanti a una vita in libertà per riuscire a lottare e competere meglio e la necessità, ch’è di tutti, di una società che non collassi su se stessa, schiacciata dal peso di troppo pronunciati e individualistici egoismi? Altro che gay culture, carissimo Giuliano.
Roberto Volpi
Sarà fondamentale, caro Volpi, inventarsi qualcosa, come dice lei. Anche perché non penso che i suoi ragionamenti possano essere separati da altri dati importanti, che sono quelli (drammatici) che ci ha offerto ieri l’Istat. Nel 2045, la popolazione residente in Italia sarà pari a 58,6 milioni e arriverà a 53,7 milioni nel 2065. Rispetto al 2016 la perdita coincide a 2,1 milioni di residenti nel 2025 e di 7 milioni nel 2065. Nel nuovo senso comune occorrerà trovare un modo per ricordarsi dei figli e non far morire un paese.