I morti e i vitalizi. E pensare che Di Maio è "quello serio"

Al direttore - A forza di gridare ai vivi “siete morti” era logico rimproverare a un morto il vitalizio.

Giuseppe De Filippi

  

E pensare, che ridere, che Di Maio – che alcuni notisti politici di alcuni giornali, in particolare uno, che scrive sul Corriere della Sera, trattano come se fosse il Macron italiano – è “quello serio”, “quello bravo”. Poverino.


    

Al direttore - Cesare Damiano e Maurizio Sacconi, da ministri, si sono sempre accaniti a cambiare i provvedimenti che l’altro aveva varato. Eppure, nei giorni scorsi i due presidenti hanno licenziato – con un patetico “distinguo’’ in premessa (“Pur muovendo da diverse impostazioni sull’assetto del sistema previdenziale’’) – un “Appello (urbi et orbi, ndr) per una maggiore gradualità dell’età di pensione’’, mediante “un rinvio strutturale dell’adeguamento (…) all’aspettativa di vita, che altrimenti la porterebbe a 67 anni a partire dal 2019’’. Ciò in conseguenza della riforma Fornero che non avrebbe previsto una “vera transizione’’, tanto che il sistema italiano, secondo loro, si caratterizzerebbe già ora per il primato globale dell’età di pensione. Ovviamente in un paese, che piange lacrime di coccodrillo sui minori e i giovani sempre più poveri, ma non esita a riversare fior di miliardi sulle pensioni, la presa di posizione dei due presidenti (sicuramente autorevoli e competenti) ho trovato un’audience favorevole senza che nessuno si prendesse la briga di ricordare che portando a 67 anni l’età pensionabile di vecchiaia dal 2019 si sarebbe determinata la tragica conseguenza di aumentare di un solo mese la soglia prevista a quella data. Così, il presidente Tito Boeri, in un’intervista al Sole 24 Ore, ha colto l’occasione per smentire alcune tra le più grandi menzogne che circolano nel dibattito. La prima riguarda, appunto, lo spauracchio dei 67 anni, come se tutti gli italiani fossero costretti ad andare in quiescenza non prima di quell’età. Boeri invita a non considerare l’età legale ma quella effettiva alla decorrenza della pensione, perché, da questo angolo di visuale, certamente più corretto, risulta che in Italia stiamo al di sotto della media europea e dei 64 anni della Germania. Secondo il Coordinamento attuariale dell’Inps l’età media effettiva alla decorrenza, riferita ai flussi dei trattamenti di vecchiaia erogati nel 2016, nei regimi privati dipendenti e autonomi, è pari a 66 anni (66,8 gli uomini e 65,1 le donne). Diverso è il trend delle pensioni anticipate/di anzianità. Dal 2012 fino a febbraio di quest’anno, sono state liquidate (ex novo) più di 600 mila pensioni anticipate, contro 450 mila prestazioni a titolo di vecchiaia. A quale età (media) si varca, in anticipo, l’agognata soglia? Nel 2016 a 60,7 anni (dato complessivo per uomini e donne di tutte le gestioni considerate: 61,1 i primi e 59,8 anni le seconde); due decimali in più nei primi mesi del 2017. Secondo l’Inps, deriverebbero, invece, dal blocco dell’automatismo 141 miliardi di spesa in più da qui al 2035 (e un incremento di 200 mila pensioni all’anno): uno tsunami economico che si aggiungerebbero agli effetti politici determinati dallo smantellamento di una riforma apprezzata a livello internazionale. A Boeri, i due presidenti hanno risposto, di nuovo insieme, che era loro intenzione rimodulare, e non bloccare, l’aggancio automatico all’attesa di vita. Ma si fa sempre così. Si comincia con un rinvio e si finisce con l’abolizione di una norma scomoda. E’ la sorte toccata anche alla regola della lieve penalizzazione economica nel caso di pensionamento anticipato prima dei 62 anni di età. D’altro canto, le salvaguardie per gli esodati sono diventate otto fino ad includere coloro che, con la precedente disciplina, avrebbero maturato il diritto alla pensione  entro 7 anni dall’entrata in vigore  della riforma “Fornero” (che ormai si è trasformata, dopo le tante deroghe, in una tigre sdentata).

Giuliano Cazzola

  


  

Al direttore - In un passaggio dell’intervista pubblicata sabato scorso il presidente dell’Anac Cantone ha sottolineato come il numero dei processi non consente di identificare i fatti di corruzione e determinare l’ampiezza e la rilevanza del fenomeno aggiungendo: “la corruzione spesso si nasconde anche in casi macroscopici di appalti non fatti correttamente (...) nell’eccesso di procedure negoziate che non a caso a Roma, relativamente agli anni sui quali sta indagando la procura di Roma nell’ambito del processo Mafia capitale, erano più del 90 per cento del totale”. Cantone sembra dire, dunque, che la corruzione non sarebbe misurabile con il numero di processi – ma forse intendeva riferirsi al numero delle sentenze passate in giudicato o almeno pronunciate – ma con i fatti rispetto ai quali le procure avviano procedimenti penali indipendentemente dal fatto che le singole condotte contestate rappresentino, di per sé stesse, un reato, che siano segnatamente riconducibili a una delle ipotesi di corruzione previste dal codice penale e che siano accertate da un giudice terzo. L’argomentazione del presidente dell’Anac appare poco convincente e alquanto scivolosa specialmente perché a sostegno vengono richiamati l’operato della procura di Roma e il processo Mafia capitale, come a voler dire che la corruzione (e perché no il tasso di mafiosità) a Roma non potrà essere misurata attraverso il processo – rectius la sentenza che verrà pronunciata – ma dal “racconto criminale” che la procura ha saputo comporre e proporre all’opinione pubblica mettendo insieme condotte penalmente rilevanti, attività amministrative dubbie (per es. il ricorso alla procedura negoziata che, nonostante la vulgata, è una modalità di affidamento dei contratti pubblici prevista dalla normativa) e la millanteria logorroica di alcuni degli inquisiti, ben nota specialmente a chi ha seguito il dibattimento grazie a Radio Radicale.

  

Marco Eramo

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