Il vitalizio di Macron. Ambasciatore in Russia che porta pena

Al direttore - Intanto Macron dà il vitalizio a Serraj e Haftar.

Giuseppe De Filippi

  


  

Al direttore - In un’intervista al Corriere, l’ambasciatore italiano a Mosca, Cesare Ragaglini, spiega che l’Europa è un partner naturale per la Russia, ma è poco rispettosa. Ha tentato di coinvolgere l’Ucraina, ha imposto delle sanzioni, ha accusato Mosca di pirateria informatica, “una sorpresa” secondo il diplomatico italiano, visto che si è sempre considerata la Russia un paese dalle capacità tecnologiche limitate che “improvvisamente” è in grado di influenzare i processi elettorali in occidente. La diplomazia è materia delicata, si sa, con Putin ancora di più, almeno da parte nostra, visto che invece il capo del Cremlino non sta troppo attento ai fronzoli democratici quando decide di ricavarsi un porto sul Mediterraneo o impedire un processo di avvicinamento tra un ex paese dell’Urss e l’Unione europea. Ma non le pare bizzarro che l’ambasciatore italiano a Mosca sembri piuttosto un ambasciatore russo che parla bene l’italiano?

Paolo Marini

  

Tra essere l’ambasciatore degli interessi italiani in un paese ed essere l’ambasciatore degli interessi di altri paesi in Italia esiste un differenza significativa che l’ambasciatore italiano in Russia ieri mi sembra che abbia chiaramente scelto di trascurare. Brutto segno.

   


  

Al direttore - C’è una corruzione di cui è vietato parlare. Il rapporto di corruzione organica, do ut des, tra procure giornali e tg.

Frank Cimini

  

Sarebbe uno spasso vedere un giorno una bella inchiesta sul traffico di influenze tra un qualche pm e un qualche giornalista al servizio di una procura.

  


  

Al direttore - Paolo Franchi (Corriere di ieri) si fa travolgere dalla nostalgia. E affonda nella preistoria. Si ostina di ricavare, nella tetra morte termica della sinistra occidentale, una traccia genetica promettente, qualcosa da clonare che rinverdisca le fattezze di un socialismo plausibile. Come l’eccentrico Hammond in Jurassic Park di Spielberg che pretende di replicare, in una versione da parco giochi, novelli dinosauri ma finisce in tragedia, Franchi rintraccia il Dna replicabile del socialismo che torna nelle cellule di tre vecchi signori, felliniane e imbellettate figure di settantenni, che calcano ancora il teatro eterno della sinistra sinistra intellettuale: Bernie Sanders, Jean-Luc Mélenchon e Jeremy Corbyn. Chissà perché Franchi li evangelizza. Lo sapessero loro lo sbranerebbero. Franchi legge nei tre canuti signori la promessa del ritorno di un’idea, eterna e compassionevole, del socialismo come annuncio della “promozione degli ultimi”. Promessa che tornerebbe attuale date le rovine (sic) inegualitarie del capitalismo della globalizzazione. Insomma: tre predicatori. Ma, ahimè, è una fake news. Se proprio servisse un neomessianesimo socialista ci sentiremmo più sicuri, avrebbe detto il buon Craxi, a riattualizzare il socialismo cooperativo, nostrano, cristiano, da epopea di Novecento dei nostri Prampolini o Bissolati. I tre canuti di Franchi che c’entrano? Sono alchimisti medievali che promettono di ricavare oro da intrugli di vecchissime ricette socialiste: gratuità dei servizi, tassazione redistributiva, statalismo, sovranismo ecc. Una variante dello stesso spartito populista delle destre estreme. Quale messianesimo? Quale attenzione agli “ultimi”? Il socialismo dei tre anziani dinosauri, che Franchi-Hammond vorrebbe clonare, moltiplicherebbe a dismisura, con le sue ricette fossili, la fila degli ultimi. Verrebbe da ribaltare su Franchi la celebre barzelletta, che Paolo cita nel suo articolo: il mitico Popov, leggendario ultimo iscritto del Pcus, che replica ingenuo agli esperimenti del marxismo-leninismo scientifico del compagno Suslov: “Ma se il socialismo è scienza, compagni, perché non lo provate prima sui topi”?

Umberto Minopoli

  


   

Al direttore - Che l’Eba, in conseguenza di Brexit, si insedi a Francoforte (vedi articolo sul Foglio del 25 corrente) per ricadere di fatto sotto l’influenza del “genius loci” tedesco non è una ipotesi esaltante. Si conoscono il formalismo e il rigorismo di questa Authority, insieme con gli errori gravi commessi negli stress test (si pensi, da ultimo, alla vicenda del Banco Popular). Una concentrazione delle vigilanze bancarie e finanziarie europee nella città tedesca, dove ha sede anche la Bce, sarebbe uno sgradevole segnale evocante voglie egemoniche. Del resto, non si dice all’Italia, per l’Ema, che dove hanno già sede Authority europee non se ne dovrebbero insediare altre? Vale o non vale questo criterio? Se a ciò si aggiunge che si è già cominciato purtroppo a discutere con ben due anni di anticipo del dopo-Draghi e molti in Germania vorrebbero che il successore fosse Jens Weidmann, l’attuale capo della Bundesbank, ogni commento risulta superfluo. Le intese Mitterrand-Kohl prevedevano la sede della Bce a Francoforte, ma escludevano la nomina di un presidente tedesco. In ogni caso, più che porsi il problema di dove trasferire l’Eba, andrebbe colta l’occasione per riformare l’intera architettura delle Autorità operanti nel campo bancario, finanziario e assicurativo, come da più parti viene richiesto. In questo contesto, l’Eba, venuta meno anche l’esigenza di dare un contentino al governo inglese, potrebbe essere soppressa senza danno per nessuno, anzi con vantaggi sul piano dei costi e di una migliore regolamentazione. Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia

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