Sì: a Napoli ci voleva un pm che, dalla politica, arriva in procura politica
Al direttore - Avvistato Di Maio al telefono con l’ambasciata di Francia per chiedere un cantiere navale.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Quelli che ancora oggi lamentano che, quando si è privatizzata Telecom, non lo si sia fatto mantenendo la rete di proprietà pubblica, si sono mai figurati come si sarebbe dovuto fare? Stet avrebbe dovuto separare societariamente gestione tecnica e gestione commerciale. Stet-Tecnica avrebbe gestito tutto quello che attiene alla connessione degli utenti, Stet-Commerciale si sarebbe occupata di pubblicità, contratti, fatturazione, incasso, e un contratto avrebbe stabilito quanto le sarebbe stato riconosciuto per questi servizi, come percentuale del ricavo da clienti. Naturalmente, per i sostenitori della rete pubblica è solo Stet-Commerciale che si sarebbe dovuto vendere. Gli asset di questa società sarebbero stati solo i negozi di proprietà, e immobili, macchine, uffici per svolgere le sue attività; i ricavi sarebbero dipesi da quanta parte del ricavo totale dal mercato le sarebbe stato riconosciuto. Chi avesse comperato Stet-Commerciale, oltre al normale rischio di impresa, sarebbe stato esposto anche al rischio di una negoziazione con Stet-Rete, cioè con lo stato: quindi l’incasso dalla privatizzazione non sarebbe stato neppure paragonabile a quanto lo stato ricavò dalla vendita della Stet tutta intera. Ma quel che è peggio è che l’interfaccia così creata tra le due aziende, la si sarebbe ritrovata anche nel processo decisionale sugli investimenti. Infatti Stet-Commerciale deciderebbe di investire per estendere il mercato solo se fosse sicura che anche Stet-Rete investe per potenziare i propri impianti, e viceversa. La duplicazione dei momenti decisionali (e il rimpallo sull’entità degli investimenti) si tradurrebbe sicuramente in un ritardo, e con ogni probabilità in una riduzione degli investimenti. Se in nessun paese d’Europa la vendita del monopolista telefonico statale è stata fatta mantenendo la proprietà della rete in capo allo stato, qualche ragione c’è.
Franco Debenedetti
Al direttore - Senza dubbio il vertice di Parigi, mediatore Macron, tra al Serraj e Haftar sulla crisi libica deve far riflettere. L’effetto spiazzamento, subìto dall’Italia a seguito dell’intraprendente ripresa dell’iniziativa diplomatica del nuovo inquilino dell’Eliseo, è sottolineato da gran parte dei commenti della stampa italiana. Penso, però, che un certo affanno dell’Italia in questa fase dei rapporti internazionali – tranne le lodevoli iniziative di Minniti nell’area a sud della Libia, a cavallo con il Niger – sia riconducibile a una causa ben precisa e di natura interna al nostro paese: l’assenza di innovazione e robustezza del sistema istituzionale e di governo. In politica estera, certo, occorre essere custodi e promotori di una tradizione diplomatica accumulata nel tempo e lungamente praticata, in cui riconoscersi come comunità nazionale. Occorrono, altresì, centri politico-culturali in grado di produrre una visione dell’interesse nazionale intorno alla quale richiamare singoli leader e forze politiche. Ma non fermiamoci solo a queste ragioni. Sono convinto che l’affanno italiano di oggi sulla scena diplomatica derivi – prevalentemente – dalla mancata “riforma costituzionale bocciata dagli italiani fessi…” nel dicembre scorso (copyright di Giuliano Ferrara che condivido in toto, anche nella forma), che ha indebolito sistema politico e governabilità. Quanto dovremo sopportare una tale situazione? Le prossime elezioni politiche saranno in grado di esprimere un governo dell’interesse nazionale? Per ora, confesso, questo auspicio è pari al rimpianto per l’occasione persa nel dicembre scorso.
Alberto Bianchi
Al direttore - Giovanni Melillo, ex capo di gabinetto del ministro Andrea Orlando, è il nuovo capo della procura di Napoli. Non pensa sia pericoloso che un magistrato vicino alla politica sia diventato il capo di una procura dove si sta giocando una importante battaglia politica?
Luigi Catani
Un magistrato che ha visto come funziona la magistratura dai palazzi della politica e del governo – e che in un certo modo ha sperimentato sulla sua pelle cosa significa avere un potere giudiziario infinitamente più forte di un potere politico – potrebbe essere la persona giusta per riportare un po’ di equilibrio e di buon senso in una procura come quella di Napoli che, direbbe Vasco, un buon senso spesso non ce l’ha.